Come la pandemia ha cambiato il nostro modo di pensare e di stare al mondo
Sottoposti a una dittatura delle procedure, il rischio è confondere la vita quotidiana con quella in rete.
Ma nel ritmo delle macchine non c’è posto per relazioni e festa.
- di ADRIANO FABRIS
Come ogni esperienza collettiva, anche la pandemia sta lasciando tracce permanenti. Di molte ci accorgeremo tra un po’. Non parlo solo delle conseguenze fisiche, più o meno evidenti in chi ha contratto il Covid ed è riuscito a guarire. Non parlo solo del dolore di chi, a causa della malattia, ha perduto persone care, senza neppure averle potute accompagnare negli ultimi istanti. Né parlo dell’estremo disagio di chi ha perso il lavoro e dei tanti che non riescono a trovarlo: la vera emergenza che non può essere affrontata solo con i sussidi. Parlo di qualcosa di più generale, che coinvolge tutti, anche chi dal virus non è stato colpito direttamente. Mi riferisco ai cambiamenti nel nostro modo di pensare, di guardare agli altri, di stare al mondo.
Anche qui c’è una trasformazione: meno evidente ma non meno radicale. E tuttavia bisogna intendersi. Non si tratta solo di una perdita. Infatti, come ogni esperienza, anche la pandemia offre opportunità che vanno sfruttate, insegnamenti di cui fare tesoro, accanto a pericoli da comprendere e da evitare. Pensiamo, per esempio, a come è cambiata in questi mesi la nostra esperienza dello spazio e del tempo. Pensiamo a quanto sono mutate le nostre relazioni. Per molti lo spazio quotidiano si è ristretto, spesso fino alla costrizione e al confinamento entro le mura di casa. L’apertura di spazi digitali ha supplito solo fino a un certo punto. Certo, abbiamo sperimentato che le tecnologie della comunicazione non comportano semplicemente una trasmissione di dati ma dischiudono ambienti molteplici, all’interno dei quali abitiamo. Ciò ha fornito una grande opportunità: ampliare gli orizzonti della nostra esperienza. Ma abbiamo anche capito che spazio fisico e ambienti online non sono la stessa cosa. In questi ambienti a mancarci è il corpo. La percezione resta limitata ai contorni dello schermo. E ci siamo accorti che le regole di questi nuovi spazi non sono le stesse della vita offline, che queste regole abbiamo bisogno di definirle per davvero, che non possiamo solo farcele imporre da questa o quella piattaforma. L’opportunità, insomma, è quella di ampliare le nostre capacità di relazione.
Il rischio è di confondere la vita quotidiana con quella in rete, sovrapponendo i comportamenti dell’una a quelli richiesti dall’altra. Purtroppo, tanti episodi recenti, che coinvolgono anche i nostri ragazzi, ci fanno capire come questo sia un rischio da non sottovalutare. La nostra esperienza del tempo, poi, ha subìto una trasformazione forse ancora più grande. Il tempo all’epoca del coronavirus si è fatto uniforme e indifferente. Ha perso continuità, si è concentrato nell’attimo. Da quest’attimo siamo sempre più assorbiti. Ogni istante – ad esempio durante lo smart working – richiede totale impegno e attenzione. Ciò non è privo di conseguenze per il nostro equilibrio psicofisico. Infatti, il venir meno delle abitudini consolidate ha provocato in molti disorientamento e la necessità di ricalibrare nuovi ritmi: non più dettati dalle relazioni sociali e dall’incontro con gli altri ma definiti da procedure e programmi con cui siamo costretti a interagire. Per molti l’orario della riunione è ricordato dalla piattaforma, ciò che bisogna fare per il lavoro dipende dalla capacità di adattarsi a un determinato protocollo. Ci troviamo sottoposti a una dittatura della procedura, che non siamo noi ma sono certe macchine a mettere in opera.
Tutto questo probabilmente resterà anche in futuro: almeno a detta degli esperti. Il problema è che il tempo delle macchine e dei programmi è un tempo quantitativo, un tempo tutto uguale. Non è il tempo della nostra esperienza, che qualitativamente è invece sempre diverso. Per noi la stessa mezz’ora pare volare via in un lampo, o sembra invece non finire mai. Se invece il nostro tempo viene standardizzato, se noi siamo costretti a seguire il suo ritmo meccanico, tutto si fa omogeneo. Tutto diventa indifferenziato e sembra, alla fine, essere indifferente. Ne è una riprova il venir meno della distinzione tra tempo di lavoro e tempo della festa, visto che le macchine non ammettono pause. E così la domenica cessa definitivamente di essere il giorno del Signore. Insomma: se il tempo delle relazioni interumane si eclissa, se cade la distinzione tra impegno e pausa, se i ritmi della vita non sono più stabiliti da noi ma da un programma, se le procedure che dobbiamo seguire non ci danno tregua e non distinguono tra giorno e notte, allora ciò che rimane è solo un tempo esploso, polverizzato. È un tempo che non offre più continuità. Che non collega più i vari aspetti della nostra vita. Che in definitiva non ci permette di costruire un’identità, di capire chi siamo.
Tutto ciò si riflette infine sulle relazioni che sostengono la nostra vita. Se c’è una cosa che la pandemia ha smascherato è l’illusione – moderna – della centralità dell’individuo isolato e autosufficiente. Abbiamo invece sperimentato sulla nostra pelle, proprio quando siamo stati costretti a isolarci, che le relazioni non possono essere tagliate via, perché sono la sostanza del nostro essere. Se questo è un indubbio guadagno, nel contempo tuttavia è emerso anche un modo di pensare che può essere fuorviante e pericoloso. La distanza, il distanziamento, si sono imposti come valori. Abbiamo imparato che, paradossalmente, si ama il prossimo tanto più quanto lo considera (e lo si tratta) come qualcuno che va tenuto lontano: per non contagiarci, per non contagiarlo. È il pericolo dell’indifferenza. Tenere a distanza il prossimo, vederlo soltanto da lontano, magari su uno schermo, ci fa addirittura pensare che ciò che lo riguarda sia una mera rappresentazione o – peggio – una montatura: come ritiene chi nega, assurdamente, la realtà della pandemia. Ma l’immagine non sostituisce la realtà. Il reale ha una forza di verità che prima o poi viene fuori. E che sollecita il nostro impegno.
Ecco dunque alcuni segni profondi che quest’esperienza – tragica per molti, difficile per tutti – sta lasciando. Ecco i rischi e i guadagni che essa comporta. Non sarà un’esperienza inutile, però, a un’unica condizione. Potrà restarne qualcosa di positivo solo se ne trarremo insegnamenti: solo se la pandemia non ce la lasceremo alle spalle, senza pensarci più, quando i vaccini saranno finalmente disponibili per tutti. Se saremo capaci di fare tesoro di ciò che è avvenuto e sta avvenendo potremo iniziare a conciliare e a gestire i nostri spazi, reali e virtuali. Potremo recuperare il vero senso del tempo: un tempo che scorre, non già bloccato nell’istante. Potremo riattivare le nostre relazioni, in tutto il loro spessore. E saremo in grado di ripartire – di ripartire davvero – su basi nuove. Perché bisogna andare avanti. E per andare avanti ci vuole una prospettiva. Già il semplice prenderci cura gli uni degli altri, soprattutto di coloro che da questa pandemia sono i più colpiti, può essere un primo passo concreto.
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