venerdì 26 marzo 2021

GIOVANI E PANDEMIA

 «I giovani 

nella morsa della crisi»

Il sociologo Gori: la pandemia sociale mette in ginocchio le nuove generazioni e si abbatte anche sul Nord «Lo stop alle lezioni in aula? Fa crescere gli abbandoni scolastici e certifica i divari. Un’ipoteca sul futuro»

-          

-         di PAOLO LAMBRUSCHI

-          

Si diventa poveri sempre più in fretta a causa del Covid. Troppo in fretta. Le due fratture che la pandemia ha aperto nella società italiana in un anno di lockdown e chiusure a ondate di cui ha parlato ieri il Cardinale Bassetti si stanno allargando. Sono ormai oltre due milioni le famiglie povere, con un aumento di 335mila unità rispetto al 2019, secondo l’ultimo rapporto Istat sul 2020. E i cittadini interessati dal fenomeno sono 5,6 milioni, oltre un milione in più rispetto all’anno precedente. Cifre spaventose, dietro le quali si leggono storie di famiglie, da qualche mese costrette a ridurre i consumi (la spesa si è contratta del 9,1% nel 2020 rispetto al 2019) e in molti casi a cercare aiuto per mangiare, curarsi, pagare gli studi ai figli. Le Caritas diocesane e parrocchiali hanno incontrato molte di queste persone: non solo nelle regioni meridionali ma anche in quelle più ricche. I dati Istat di fatto hanno confermato i numeri e le previsioni della Caritas, segnalando che al Nord vivono ormai 218mila famiglie in povertà assoluta. Per Cristiano Gori, docente di sociologia a Trento, studioso e “lobbista dei poveri”, autore del recente volume Combattere la povertà, la novità preoccupante non è solo il numero crescente di donne e uomini in fila ai centri di ascolto parrocchiali e agli empori solidali, ma la rapidità dell’impoverimento che ha determinato il restringimento della forbice tra Nord e Sud del Paese.

Chi sono le persone che in un anno sono cadute a terra?

Molti sono nuovi poveri. La linea di sviluppo dell’impoverimento è la stessa dell’epoca pre-Covid. Ha quindi caratteristiche di trasversalità e interessa tutte le fasce sociali con una concentrazione nelle fasce più giovani. La novità è la rapidità della caduta di molti. Da anni parliamo di povertà che rompe gli argini: la tendenza si è aggravata. I dati Istat confermano lo sfondamento a Nord tra i giovani e le famiglie monoreddito dove l’unico sostegno ha perso l’occupazione. Si pensi ad esempio ai lavoratori con un contratto a termine non rinnovato. O alle madri sole con due figli che tipicamente non fanno un lavoro protetto da una cassa integrazione lunga.

Domenica scorsa il Papa e ieri la Chiesa italiana con il cardinale Bassetti nell’introduzione al Consiglio permanente insieme a diversi vescovi nelle diocesi hanno richiamato il pericolo dell’infiltrazione della criminalità organizzata tra i nuovi poveri con vere e proprie forme di welfare mafioso. Che cosa ne pensa?

Sono d’accordo, il rischio è grosso. Ma un giudizio onesto non può che essere ambivalente. Da una parte, le misure ordinarie e straordinarie contro la povertà prese in quest’anno hanno funzionato. I poveri assoluti sono cresciuti dal 7,7 al 9,4% , ma l’intensità della povertà di oggi si è abbassata rispetto a quella di 12 mesi fa. Oggi ci sono più poveri, ma con più risorse e un grado di povertà inferiore rispetto all’inizio della pandemia. Dobbiamo interpretare i numeri anche sotto questo aspetto, ma è altresì evidente che ci sono buchi nel sistema di protezione sociale in cui la malavita può infilarsi.

E quali sono?

Il primo buco riguarda la povertà al Nord dove è cresciuto maggiormente il numero degli indigenti. Il problema nel Mezzogiorno è numericamente superiore, riguarda l’11% circa della popolazione, ma la caduta del Nord (il 9%) è stata accelerata dalla crisi legata al Covid. Alcuni anni fa il divario era superiore. Nel Settentrione il reddito di cittadinanza ha una capacità protettiva minore perché, avendo una soglia di accesso uguale in tutte le regioni, è penalizzante dove il costo della vita è superiore. Il secondo buco riguarda le famiglie numerose. Il terzo le persone che hanno avuto un calo di reddito, ma hanno conservato un piccolo patrimonio, il classico profilo da crollo immediato.

La povertà educativa è invece più forte al Sud. Rischia di aggravarsi?

Sì, quello che è successo quest’anno ha già messo un’ipoteca sul futuro di una generazione. Con le sue difficoltà strutturali, l’Italia non può permettersi le chiusura scolastiche: significa una perdita di opportunità di vita con la crescita degli abbandoni scolastici. Ovviamente la Dad certifica le disuguaglianze. Non basta avere un buon pc e una buona connessione. Occorre una famiglia presente e dotata di buona cultura. Il compito della scuola è proprio quello di ridurre i divari di partenza dando a tutti le stesse opportunità.

 

www.avvenire.it

 

 

 

mercoledì 10 marzo 2021

ON LINE, PRIGIONIERI DELL'ISTANTE

RITROVARE IL SENSO DEL TEMPO

 Come la pandemia ha cambiato il nostro modo di pensare e di stare al mondo

Sottoposti a una dittatura delle procedure, il rischio è confondere la vita quotidiana con quella in rete. 

Ma nel ritmo delle macchine non c’è posto per relazioni e festa.



-         di ADRIANO FABRIS

Come ogni esperienza collettiva, anche la pandemia sta lasciando tracce permanenti. Di molte ci accorgeremo tra un po’. Non parlo solo delle conseguenze fisiche, più o meno evidenti in chi ha contratto il Covid ed è riuscito a guarire. Non parlo solo del dolore di chi, a causa della malattia, ha perduto persone care, senza neppure averle potute accompagnare negli ultimi istanti. Né parlo dell’estremo disagio di chi ha perso il lavoro e dei tanti che non riescono a trovarlo: la vera emergenza che non può essere affrontata solo con i sussidi. Parlo di qualcosa di più generale, che coinvolge tutti, anche chi dal virus non è stato colpito direttamente. Mi riferisco ai cambiamenti nel nostro modo di pensare, di guardare agli altri, di stare al mondo.

Anche qui c’è una trasformazione: meno evidente ma non meno radicale. E tuttavia bisogna intendersi. Non si tratta solo di una perdita. Infatti, come ogni esperienza, anche la pandemia offre opportunità che vanno sfruttate, insegnamenti di cui fare tesoro, accanto a pericoli da comprendere e da evitare. Pensiamo, per esempio, a come è cambiata in questi mesi la nostra esperienza dello spazio e del tempo. Pensiamo a quanto sono mutate le nostre relazioni. Per molti lo spazio quotidiano si è ristretto, spesso fino alla costrizione e al confinamento entro le mura di casa. L’apertura di spazi digitali ha supplito solo fino a un certo punto. Certo, abbiamo sperimentato che le tecnologie della comunicazione non comportano semplicemente una trasmissione di dati ma dischiudono ambienti molteplici, all’interno dei quali abitiamo. Ciò ha fornito una grande opportunità: ampliare gli orizzonti della nostra esperienza. Ma abbiamo anche capito che spazio fisico e ambienti online non sono la stessa cosa. In questi ambienti a mancarci è il corpo. La percezione resta limitata ai contorni dello schermo. E ci siamo accorti che le regole di questi nuovi spazi non sono le stesse della vita offline, che queste regole abbiamo bisogno di definirle per davvero, che non possiamo solo farcele imporre da questa o quella piattaforma. L’opportunità, insomma, è quella di ampliare le nostre capacità di relazione.

Il rischio è di confondere la vita quotidiana con quella in rete, sovrapponendo i comportamenti dell’una a quelli richiesti dall’altra. Purtroppo, tanti episodi recenti, che coinvolgono anche i nostri ragazzi, ci fanno capire come questo sia un rischio da non sottovalutare. La nostra esperienza del tempo, poi, ha subìto una trasformazione forse ancora più grande. Il tempo all’epoca del coronavirus si è fatto uniforme e indifferente. Ha perso continuità, si è concentrato nell’attimo. Da quest’attimo siamo sempre più assorbiti. Ogni istante – ad esempio durante lo smart working – richiede totale impegno e attenzione. Ciò non è privo di conseguenze per il nostro equilibrio psicofisico. Infatti, il venir meno delle abitudini consolidate ha provocato in molti disorientamento e la necessità di ricalibrare nuovi ritmi: non più dettati dalle relazioni sociali e dall’incontro con gli altri ma definiti da procedure e programmi con cui siamo costretti a interagire. Per molti l’orario della riunione è ricordato dalla piattaforma, ciò che bisogna fare per il lavoro dipende dalla capacità di adattarsi a un determinato protocollo. Ci troviamo sottoposti a una dittatura della procedura, che non siamo noi ma sono certe macchine a mettere in opera.

Tutto questo probabilmente resterà anche in futuro: almeno a detta degli esperti. Il problema è che il tempo delle macchine e dei programmi è un tempo quantitativo, un tempo tutto uguale. Non è il tempo della nostra esperienza, che qualitativamente è invece sempre diverso. Per noi la stessa mezz’ora pare volare via in un lampo, o sembra invece non finire mai. Se invece il nostro tempo viene standardizzato, se noi siamo costretti a seguire il suo ritmo meccanico, tutto si fa omogeneo. Tutto diventa indifferenziato e sembra, alla fine, essere indifferente. Ne è una riprova il venir meno della distinzione tra tempo di lavoro e tempo della festa, visto che le macchine non ammettono pause. E così la domenica cessa definitivamente di essere il giorno del Signore. Insomma: se il tempo delle relazioni interumane si eclissa, se cade la distinzione tra impegno e pausa, se i ritmi della vita non sono più stabiliti da noi ma da un programma, se le procedure che dobbiamo seguire non ci danno tregua e non distinguono tra giorno e notte, allora ciò che rimane è solo un tempo esploso, polverizzato. È un tempo che non offre più continuità. Che non collega più i vari aspetti della nostra vita. Che in definitiva non ci permette di costruire un’identità, di capire chi siamo.

Tutto ciò si riflette infine sulle relazioni che sostengono la nostra vita. Se c’è una cosa che la pandemia ha smascherato è l’illusione – moderna – della centralità dell’individuo isolato e autosufficiente. Abbiamo invece sperimentato sulla nostra pelle, proprio quando siamo stati costretti a isolarci, che le relazioni non possono essere tagliate via, perché sono la sostanza del nostro essere. Se questo è un indubbio guadagno, nel contempo tuttavia è emerso anche un modo di pensare che può essere fuorviante e pericoloso. La distanza, il distanziamento, si sono imposti come valori. Abbiamo imparato che, paradossalmente, si ama il prossimo tanto più quanto lo considera (e lo si tratta) come qualcuno che va tenuto lontano: per non contagiarci, per non contagiarlo. È il pericolo dell’indifferenza. Tenere a distanza il prossimo, vederlo soltanto da lontano, magari su uno schermo, ci fa addirittura pensare che ciò che lo riguarda sia una mera rappresentazione o – peggio – una montatura: come ritiene chi nega, assurdamente, la realtà della pandemia. Ma l’immagine non sostituisce la realtà. Il reale ha una forza di verità che prima o poi viene fuori. E che sollecita il nostro impegno.

Ecco dunque alcuni segni profondi che quest’esperienza – tragica per molti, difficile per tutti – sta lasciando. Ecco i rischi e i guadagni che essa comporta. Non sarà un’esperienza inutile, però, a un’unica condizione. Potrà restarne qualcosa di positivo solo se ne trarremo insegnamenti: solo se la pandemia non ce la lasceremo alle spalle, senza pensarci più, quando i vaccini saranno finalmente disponibili per tutti. Se saremo capaci di fare tesoro di ciò che è avvenuto e sta avvenendo potremo iniziare a conciliare e a gestire i nostri spazi, reali e virtuali. Potremo recuperare il vero senso del tempo: un tempo che scorre, non già bloccato nell’istante. Potremo riattivare le nostre relazioni, in tutto il loro spessore. E saremo in grado di ripartire – di ripartire davvero – su basi nuove. Perché bisogna andare avanti. E per andare avanti ci vuole una prospettiva. Già il semplice prenderci cura gli uni degli altri, soprattutto di coloro che da questa pandemia sono i più colpiti, può essere un primo passo concreto.

www.avvenire.it

 

lunedì 8 marzo 2021

FORZA FRANCESCO !


Papa Francesco dovrebbe chiamarsi ′′Audacia ". Mi incanta il suo coraggio, il suo instancabile impegno, il suo zelo per diffondere la Parola di Dio.

Francesco è l'espressione di un Gesù innamorato dell'umanità che tocca e sana le ferite più profonde.

È la testimonianza vivente dei profeti che cercano alternative per portare luce agli smarriti, non credenti, solitari, paurosi, pavidi e tiepidi.

Francesco è la chiave che apre il cuore di una Chiesa talora chiusa, e che mostra la bellezza del Vangelo che guarisce e libera, che con coraggio va alle periferie del mondo, che osa l’impossibile.

È l'uomo di Dio, che dialoga con tutti, che invita al rispetto e all'amicizia anche verso i fratelli di altri credo.

È il cristiano puro che ha incarnato la Buona Nuova nello spirito di fraternità, poiché sa creare empatia e riconoscere che il Creatore desidera riunire tutti nello stesso cielo.

Francesco distrugge la superbia delle leadership per annunciare a tutti il Risorto.

È l’araldo della pace che difende la dignità di ogni uomo e di ogni popolo e non tace di fronte all'ingiustizia alla mancanza di solidarietà.

Egli va avanti, niente lo ferma, sa guardare oltre l’orizzonte.

Francesco infrange i protocolli, entra nelle case, telefona, scende dal trono, porta l'altare alle vite.

Viene accolto con amore dai semplici di cuore, dalle autorità, dai magistrati. Viene ascoltato perché la sua parola convince, i suoi atti sono coerenti, la sua fede è sostenuta dalla pratica dell'amore.

Francesco rompe le barriere, si mescola con gli umili e i poveri del mondo, mostra il vero volto di Cristo.

È il Papa, più che un papa è un papà caro, amico, ma dal carattere forte, audace, deciso, intraprendente. Papa audace che parla chiaro e diretto.

Francesco è giovane, è pellegrino, trova nei suoi limiti la forza creativa per consolare e risollevare i disperati.

È il Papa del ′′ Vangelo della gioia ", della lode delle creature, dell'adorazione Eucaristica, che sorride ed invita alla fiducia nell'Altissimo.

È il messaggero della misericordia che non giudica e non condanna, che sorride, abbraccia e accarezza.

Vai, Papa Francesco, sulle strade del mondo e portami insieme a te. Ho bisogno di vivere più risolutamente l'impegno per la salvezza dell'umanità, di servire di più, uscire dalla mia quiete per far risplendere Cristo nella routine dura e schiavizzatrice del mondo.

Vai audace ′′servo dei servi di Dio", figlio amato di Maria, compagno di San Giuseppe.  Vai senza voltarti indietro, niente ti trattiene. Vai libero, benedicendo, distribuendo i semi del perdono, riconciliando, dialogando, insegnando a prenderci cura della creazione.

Vai uomo buono e bravo, Francesco, buon cristiano...

 

P. Nilton Cesar Boni cmf

 

sabato 6 marzo 2021

PREGHIERA DEI FIGLI DI ABRAMO


VIAGGIO APOSTOLICO 

DEL PAPA IN IRAQ

 

Dio Onnipotente, Creatore nostro che ami la famiglia umana e tutto ciò che le tue mani hanno compiuto, noi, figli e figlie di Abramo appartenenti all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam, insieme agli altri credenti e a tutte le persone di buona volontà, ti ringraziamo per averci donato come padre comune nella fede Abramo, figlio insigne di questa nobile e cara terra.

Ti ringraziamo per il suo esempio di uomo di fede che ti ha obbedito fino in fondo, lasciando la sua famiglia, la sua tribù e la sua patria per andare verso una terra che non conosceva.

Ti ringraziamo anche per l’esempio di coraggio, di resilienza e di forza d’animo, di generosità e di ospitalità che il nostro comune padre nella fede ci ha donato.

Ti ringraziamo, in particolare, per la sua fede eroica, dimostrata dalla disponibilità a sacrificare suo figlio per obbedire al tuo comando. Sappiamo che era una prova difficilissima, dalla quale tuttavia è uscito vincitore, perché senza riserve si è fidato di Te, che sei misericordioso e apri sempre possibilità nuove per ricominciare.

Ti ringraziamo perché, benedicendo il nostro padre Abramo, hai fatto di lui una benedizione per tutti i popoli.

Ti chiediamo, Dio del nostro padre Abramo e Dio nostro, di concederci una fede forte, operosa nel bene, una fede che apra i nostri cuori a Te e a tutti i nostri fratelli e sorelle; e una speranza insopprimibile, capace di scorgere ovunque la fedeltà delle tue promesse.

Fai di ognuno di noi un testimone della tua cura amorevole per tutti, in particolare per i rifugiati e gli sfollati, le vedove e gli orfani, i poveri e gli ammalati.

Apri i nostri cuori al perdono reciproco e rendici strumenti di riconciliazione, costruttori di una società più giusta e fraterna.

Accogli nella tua dimora di pace e di luce tutti i defunti, in particolare le vittime della violenza e delle guerre.

Assisti le autorità civili nel cercare e trovare le persone rapite, e nel proteggere in modo speciale le donne e i bambini.

Aiutaci ad avere cura del pianeta, casa comune che, nella tua bontà e generosità, hai dato a tutti noi.

Sostieni le nostre mani nella ricostruzione di questo Paese, e dacci la forza necessaria per aiutare quanti hanno dovuto lasciare le loro case e loro terre a rientrare in sicurezza e con dignità, e a iniziare una vita nuova, serena e prospera. Amen.


 

www.vatican.va

 

 

mercoledì 3 marzo 2021

LA MALDICENZA È COME UN FILO


  L'EQUILIBRIO

 NON ESISTE PROPRIO



 - Riccardo Maccioni

A volte la differenza tra il parlare bene e la maldicenza è sottile come un filo invisibile. Per passare dalla parte sbagliata della riva basta un aggettivoinfelice, una virgola, un silenzio che sa di condanna. Succede se la bontà resta senza allenamento, quando, da equilibristi quali siamo un po’ tutti, ci si sporge troppo sul bordo del pericolo con il rischio, presto o tardi, di finirci dentro. Gli esperti dell’animo umano e delle sue distorsioni sono chiari: più della caduta la colpa sta nell’esporsi alla possibilità di scivolare, quella che comunemente chiamiamo tentazione. Il desiderio di apparire migliori di come siamo, la brama di salire ancora un po’ nella scala del potere, la 'necessità' di tarpare le ali a chi volerebbe più in alto di noi. E il 'parlare bene', nel senso di trovare vocaboli forbiti e immagini affascinanti, non è affatto un antidoto, anzi spesso apre le porte al 'parlare male' che vuol dire denigrare, insultare, calunniare. Costruire delle storie così verosimili da sembrare vere, accusare l’altro dei comportamenti sbagliati che teniamo noi, chiamare  male il bene e viceversa. L’indugiare nella maldicenza, nel chiacchiericcio cattivo, tante volte insomma è un vulnus colto, di persone intelligenti, capaci di costruire un ordito maligno, una ragnatela in grado di soffocare anche i migliori, se non sono altrettanto scaltri.

Il pensiero va al grande Barcellona, 'più di un club calcistico', come recita il suo motto, il cui ex presidente Josep Maria Bartomeu, ieri è stato arrestato insieme all’attuale direttore generale, al capo dell’ufficio legale e all’ex responsabile del personale. L’accusa, ma vale per tutti la presunzione d’innocenza, è pesante: si sarebbero avvalsi di una società esterna per diffondere sui social commenti negativi nei confronti dei giocatori, e non solo, contrari alla linea della dirigenza. Tra di loro Piqué e lo stesso Messi, proprio il grande Messi. Non potendolo colpire sotto il profilo tecnico si sarebbe puntato a svilire il suo attaccamento alla maglia, l’unico patrimonio che non sfuma, in quanto sentimentale e non commerciabile, di una società sportiva.

L’effetto, come si ricorderà dal clima velenoso dei mesi scorsi, è stato devastante: crollo di credibilità del club, diminuzione del valore economico degli atleti, sconcerto, rabbia, nel migliore dei casi distacco da parte dei tifosi. Se infatti ogni colpa del singolo ha anche ricadute su chi gli vive accanto e lo frequenta, quello del parlare male è per così dire un peccato particolarmente sociale. Basta pensare ai muri di sospetto e incomunicabilità che dividono tante famiglie o alle spaccature interne a comunità religiose malate di carrierismo. Il Papa ne parla spesso, l’ultima volta domenica all’Angelus, e usando parole forti, fortissime.

Il pettegolezzo uccide, ha sottolineato in più di un’occasione, paragonando la lingua a una spada affilata, intrisa di veleno. La prevenzione allora è nel fare un passo indietro, nel rifiuto a dialogare con il male, nel silenzio, nel digiuno suggerito per questa Quaresima: dalla maldicenza, dal pettegolezzo. Dall’esporsi all’uso di parole anche apparentemente buone, per fare, consapevoli o no, il male. Perché la colpa non è cadere ma camminare sul filo, da equilibristi precari quali siamo, senza rete di protezione. Prima o dopo si scivola giù.

 

www.avvenire.it

 

lunedì 1 marzo 2021

IL GRANDE LIBRO DEL CREATO


 Come Agostino, 

venerate la terra senza idolatrarla

 

-         GIANFRANCO RAVASI

      

C’è una sorta di mantra che viene recitato anche da coloro che non ne hanno un concetto preciso: è il vocabolo 'resilienza', dal latino resilire, 'rimbalzare', adatto a definire quella proprietà di alcuni materiali, come i metalli, di assorbire un urto senza rompersi, riprendendo la forma originaria. Traslato in ambito psicologico, sarebbe quel processo cognitivo, emotivo e comportamentale che rielabora il dolore, la perdita, il lutto, il trauma superandoli, ricostruendo il proprio impianto personale e sviluppando energie interiori prima ignote. È, quindi, possibile sperare, attraverso la stessa capacità umana di resilienza, nella ripresa della vita personale e comunitaria in pienezza? A questa fiducia di natura psico-fisica si deve, però, associare anche la missione che la fede espleta attraverso la virtù teologale della speranza e la consapevolezza del primato della grazia divina. Si suol dire che nella Bibbia per 365 volte risuona questo saluto divino: «Non aver paura». È quasi il 'buongiorno' che Dio ripete a ogni alba. Lo ripete idealmente anche in questo periodo così arduo. E per chi ha perso la fede si potrebbe proporre, invece, la confessione dello scrittore García Márquez: «Sfortunatamente, Dio non ha uno spazio nella mia vita. Nutro la speranza, se esiste, d’avere io uno spazio nella sua». 

Nell’enciclica Fratelli tutti papa Francesco ricorda che «quando parliamo di avere cura della casa comune, ci appelliamo a quel minimo di coscienza universale e di preoccupazione per la cura reciproca che ancora può rimanere nelle persone... Il mondo esiste per tutti, perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità» (nn. 117-118). Il creato è, quindi, un nostro interlocutore comune anche perché è a tutti destinato. Il papa, citando i grandi Padri della Chiesa come Basilio, Ambrogio, Agostino, Pietro Crisologo, ribadisce il valore primario e fondamentale della destinazione universale dei beni creati (n. 119). In questa luce la terra coi suoi doni e frutti non è riducibile a un mero strumento né solo a uno scenario, perché è il principio vitale dell’esistenza delle creature viventi. Anzi, per l’uomo e la donna di tutti i tempi è possibile ritrascrivere liberamente, oltre che per il prossimo, il famoso precetto biblico anche così: «Ama la terra come te stesso». 

Sant’Agostino invitava a «venerare la terra», certo senza idolatrarla ma riconoscendone una parentela con noi, pur nella sua propria identità. In questa prospettiva, come abbiamo sperimentato durante questo tempo travagliato pandemico, dobbiamo riconoscere che essa ha i suoi segreti, i suoi enigmi, i suoi misteri. Il nostro atteggiamento nei suoi confronti potrebbe esprimersi anche in un ulteriore senso che potremmo affidare a un motto ottimistico: «Belle sono le cose che si vedono, più belle quelle che si conoscono, bellissime quelle che si ignorano». A formulare questa trilogia suggestiva che riguarda la nostra conoscenza è stato un grande scienziato danese il cui nome latinizzato è Nicola Stenone (Niels Steensen), vissuto tra il 1638 e il 1686, e per alcuni anni anche in Toscana. In lui l’altissimo livello della ricerca scientifica s’intrecciava con l’anelito religioso. Da un lato, infatti, fondamentali sono stati i suoi studi di anatomia (ad esempio il 'dotto di Stenone' nella parotide) e di geologia (la 'legge di Stenone' per i cristalli, oppure le sue analisi stratigrafiche). D’altro lato, si deve ricordare che fu anche un appassionato credente e vescovo di Hannover, proclamato beato da Giovanni Paolo II nel 1988. I tre livelli che egli propone sono un ideale itinerario della mente e dell’anima.

Certamente importante è la contemplazione della realtà, capace di generare stupore. Affascinante è il percorso che ci conduce oltre la superficie nella profondità, nei segreti della natura, del corpo e dello spirito. Ma, con umiltà, ogni grande scienziato e ogni autentico credente sente vibrare l’attrazione suprema che esercita l’ignoto. Non solo nell’infinitamente grande, ma anche nel microscopico, ogni scoperta rivela altri orizzonti ulteriori e sconosciuti da perlustrare. Nella scienza come nella fede, il mistero non è oscurità irrazionale, ma luce non ancora attinta eppur sempre vivace, e mai spenta. E sarà questa anche la lezione che la Bibbia ci offrirà nel percorso che stiamo intraprendendo.

 www.avvenire.it

G. Ravasi, Il grande libro del creato, ed. san Paolo, 2021, pagg. 464, € 22