venerdì 26 ottobre 2018





NOTIZIARIO DICASTEROLAICI, FAMIGLIA E VITA


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domenica 21 ottobre 2018

PADRE PUGLISI E LA VITTORIA SULLA "MAFIA BUONA"

Gli «esempi» 
che hanno dato frutto
SULLA «MAFIA BUONA» UNA VITTORIA CULTURALE

di Giuseppe Pignatone*

La storia della vita e della morte di padre Puglisi rende un’idea della violenza incombente e senza limiti di quella condizione di offesa continua alla dignità umana in cui si viveva a Palermo, e che a padre Puglisi fece dire: «Chi usa la violenza non è un uomo, si degrada da solo al rango di animale». E di questa minaccia imminente, di questo rischio della vita tanti erano consapevoli: persone comuni e persone più esposte per il lavoro che facevano o il ruolo che ricoprivano. Lo erano Falcone e Borsellino, lo erano Piersanti Mattarella e Pio La Torre, lo era Padre Puglisi, che si preoccupò di non esporre a pericolo i suoi amici, quelli che gli erano stati affidati dal Padre (Gv. 17,8). E di quei rischi erano consapevoli tanti altri che, per un caso o per un disegno della Provvidenza, non sono stati colpiti dalla violenza mafiosa.
Riandando con il pensiero a quegli anni, penso che tanti, tantissimi, hanno cercato di portare avanti, a Palermo e in Sicilia, una 'normalità impossibile'. Proprio perché la situazione era questa io credo che sia giusto ripetere in ogni occasione che noi, cioè lo Stato italiano, abbiamo sconfitto quella mafia, la Cosa nostra corleonese, la mafia delle stragi, la mafia che aveva sfidato lo Stato pretendendo di trattare da una posizione di superiorità. Una sfida che è durata troppo a lungo, costata troppe vittime e troppi sacrifici, ma che è stata vinta senza leggi eccezionali, nel rispetto della Costituzione e dei codici. Il delitto di Brancaccio, insieme alle bombe piazzate proprio dai mafiosi agli ordini dei Graviano a San Giovanni («cuore della Roma cristiana», secondo la definizione del cardinale Ruini) e a San Giorgio al Velabro il 27 luglio 1993, rappresentano una intimidazione a tutta la Chiesa e una risposta alle parole pronunziate da Giovanni Paolo II ad Agrigento poche settimane prima, il 9 maggio. Queste parole colpirono profondamente i mafiosi perché denunziavano direttamente una delle ipocrisie chiave nella falsa rappresentazione che le mafie danno di sé: quella di essere una vera religione, coerente e compatibile con quella cattolica, ancora così importante nelle nostre regioni.
Naturalmente la vittoria processuale, se così si può dire, sulla mafia corleonese è frutto anche di una battaglia culturale che è e che sarà decisiva per la vittoria su tutte le mafie. E su questo punto cruciale l’esempio di padre Puglisi rimane di assoluta attualità. Diceva: «Non dobbiamo tacere, bisogna andare avanti. Ciò che è un diritto non si deve chiedere come fosse un favore». Parole ancora attuali, e non solo a Palermo. Mi tornano in mente le parole di Paolo Borsellino che invitava a parlare comunque, in ogni occasione, della mafia, perché la mafia cerca il silenzio, il nascondimento, la disinformazione, come si vede in ogni parte d’Italia.
Quelle di padre Puglisi non erano solo parole vane, ma parole che generavano effetti inaccettabili per i mafiosi. Naturalmente non era un illuso. E la sua frase più famosa, «se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto», segue l’affermazione piena di realismo con cui mette in guardia i suoi amici: «Le nostre iniziative devono essere un segno. Non è qualcosa che può trasformare Brancaccio. Questa è un’illusione che non possiamo permetterci».
A queste parole di Padre Puglisi io vorrei affiancare quelle di due altri grandi siciliani. Giovanni Falcone: «Si può sempre fare qualcosa» dovrebbe essere scritto sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto. Piersanti Mattarella, in un discorso ai giovani, disse: «Non vi lamentate se il personale politico della Dc siciliana è mediocre e impresentabile, perché la responsabilità più grande e più grave è quella degli onesti e dei capaci che se ne lavano le mani e non si impegnano per cambiare le cose». Lo storico Andrea Riccardi si chiede se alla fine per Mattarella, come per Puglisi, non si possa parlare di vite sprecate per realizzare sogni impossibili. Al di là della risposta della fede – che riguarda la coscienza di ognuno e che si basa sulla parabola, cara a padre Puglisi, del chicco di grano che se non cade e marcisce non dà frutto – anche in una logica laica gli esempi di Mattarella e di padre Puglisi, uniti a quelli di tanti altri, hanno portato frutto.
Non solo per quella che ho definito la sconfitta processuale della mafia corleonese, ma anche sul piano – decisivo – della crescita culturale. Fino a non molto tempo fa 'mafia' non coincideva affatto con 'criminalità'; si poteva essere mafiosi senza sentirsi né essere considerati delinquenti. Oggi non è più così. Nessuno più oserebbe parlare di una 'mafia buona' o definire la mafia 'un normale modo di comportarsi'.
Ecco, io – che ho vissuto quei tempi in cui tutto questo avveniva – credo che si tratti di un cambiamento di fondamentale importanza, determinato certo dalle stragi e dalle migliaia di vittime, ma anche dall’esempio positivo di tanti, a cominciare naturalmente da quello, eroico fino al martirio, di padre Pino Puglisi.

*Magistrato, procuratore della Repubblica di Roma

sabato 13 ottobre 2018

SINODO GIOVANI . CREDERE NONOSTANTE LE STRUTTURE

giacomoLa Chiesa cresce per l’attrazione di una fede coinvolta con la vita vera. Domande sul Sinodo dei giovani in dialogo con Giacomo D’Alessandro, animatore di un centro al servizio dei poveri presente nella chiesa di San Pietro in Banchi a Genova

«Da quattro anni provo a fare vita comunitaria con altri ragazzi nei locali di una chiesa nel centro storico di Genova. Un luogo deputato da 35 anni al dialogo tra culture e religioni, a percorsi di ricerca esistenziale e rete sociale. Di mio sono una sorta di “viandante”: il movimento lento, l’incontro, la narrazione caratterizzano un po’ tutte le mie attività. Quelle di comunicatore, quelle di camminatore, quelle di musicista». Si definisce così Giacomo poco sopra i venticinque anni animatore di questo centro straordinario di condivisione, reciprocità, ricerca di cammino vocazionale per giovani che vogliono impegnarsi seriamente a servizio del Vangelo.
Laboratorio privilegiato e appassionante di proposte maturate tra giovani che vogliono fare della loro qualcosa di bello per loro stessi e per gli altri. «Ho una passione per il Vangelo e la Chiesa che da 10 anni mi portano a documentarmi, scrivere e organizzare eventi di approfondimento critico. Ho provato a smettere, ma niente. C’è troppo di buono da valorizzare, spesso offuscato da troppo di malsano da denunciare e rimuovere. Molte ceneri sopra le braci ardenti, come diceva Martini. E in un mondo così complesso, abbiamo bisogno di tornare alla radicalità limpida delle braci originarie».
A Giacomo domandiamo: un giovane della chiesa di Genova, cosa si aspetta dal Sinodo dedicato ai giovani?
Se permetti la battuta, un giovane della chiesa di Genova non sa nemmeno che ci sarà un Sinodo, nel nostro “feudo” purtroppo la chiesa di papa Francesco ancora non arriva. Personalmente, dal Sinodo mi aspetto un cambio di approccio da parte della gerarchia ecclesiastica (perché ricordiamo che questi consessi non li conduce il Popolo di Dio che è la Chiesa, ma la gerarchia che è una piccola parte uniforme di Chiesa). Mi aspetto quello che si stanno impegnando a fare con tanta buona volontà: mettersi in ascolto delle voci libere di tanti giovani diversi, credenti e non credenti, per ricevere da loro una lettura della realtà globale, locale, e della chiesa stessa. Mi aspetto la capacità di non starsene dei contributi giovanili clericali (rischiano di essere i più), ma che sappiano capire da dove arrivano i contributi più originali e rappresentativi, le intuizioni più qualitativamente sensate per rispondere ai segni dei tempi. Mi aspetto infine che si abbia il coraggio di sbloccare alcune riforme attese da troppi anni, penso al diaconato femminile (che ricchezza libererebbe nella chiesa mondiale!), la fine dei seminari su modello tridentino, percorsi vocazionali in grado di valorizzare davvero i diversi carismi espressi dai giovani nel mondo, non soltanto quei carismi che rientrano negli stretti parametri dell’inquadramento ecclesiastico. Non è vero che sono calate le vocazioni, sono calate “questo” tipo di vocazioni pre-confezionate, che non impattano più sulla vita e sulla realtà delle persone.
Secondo la tua esperienza, la Chiesa nelle sue forme, strutture e liturgie è ancora attraente per un giovane?

So che per alcuni queste saranno parole insopportabili, ma bisogna accettare che molti giovani credono “nonostante” le forme, strutture e liturgie della Chiesa. Da tempo queste cose sono, di fatto, controproducenti a percorsi di fede adulta. Non per niente negli ambienti ecclesiali la qualità delle persone si è drasticamente abbassata, rispetto agli anni post-conciliari. L’ossessione dell’omologazione (scambiata per comunione) unita all’immobilismo pachidermico (che fa restare in maniera crescente “fuori dal tempo”) ha tolto alla chiesa le energie migliori. I giovani più svegli sono i primi ad andare altrove ad esprimere i loro talenti, piuttosto che rimanere invischiati in ambienti stantii, dove per smuovere un centimetro devi lottare contro frotte di anziani formati a linguaggi incomprensibili e a strumenti decisionali anti-democratici. Quello che è ancora attraente per i giovani è l’impegno radicale e civile di tanti credenti che agiscono nella società, a partire dal Vangelo, “in Cristo per l’Uomo”. Molti giovani sono in cerca di senso forte per la loro vita, di mission valide in cui tradurre le loro grandi capacità ed esperienze.
Un giovane che vuole seguire Gesù cosa domanda alla chiesa oggi?
È difficile dirlo, dal momento che mai lo si chiede. A questo può servire il Sinodo: capire quali domande porre ai giovani, nella speranza di ottenere delle risposte utili a migliorare gli ambienti educativi. Nella mia limitata esperienza vedo che molti giovani reagiscono bene in situazioni esperienziali forti: il viaggio, il cammino, la missione, il volontariato, la vita comunitaria… Ci sono giovani che hanno fatto tutti i percorsi parrocchiali disponibili, e da adulti si accorgono di non aver mai fatto un percorso di qualità per comprendere i Vangeli. Altri si accorgono di aver fatto tante parole sui valori, ma di non sapere da che parte cominciare per metterli in pratica. Altri ancora hanno bisogno di strumenti per fare discernimento, ma la formazione per essere accompagnatori equilibrati, magari su modello ignaziano, non è certo di tutti i preti e religiosi. Le nuove generazioni generalmente vogliono partire dal fare. Anche perché hanno ben altre preoccupazioni che “fare salotto” o retorica valoriale. Se la fede che si presenta loro è “credi o non credi in Dio”, allora non interessa più a nessuno, perché non ha nulla a che fare con la vita vera. Devono studiare, trovare lavori, aumentare curriculum, capire chi sono, dove vanno, quali stimoli siano distrazioni, quali desideri siano sopiti, dove va il mondo, come incidere su una realtà complessa, come far fronte a esigenze materiali che paiono insormontabili e angoscianti… Si chiedono se sia ancora possibile appartenere a qualcosa, o se sia doveroso andarsene, sperimentare l’altrove, e come tenere insieme percorsi individualistici pur cercando relazioni forti, un ambiente in cui sentirsi a casa. Le esigenze si sono individualizzate e moltiplicate. Per questo la vecchia parrocchia o il vecchio parroco oberato di liturgie non possono rispondere se non a un pugno di giovani. Servono team pastorali con una rete di proposte di qualità più affidabile, il cui fine non sia “portare i giovani in parrocchia”, ma “fare strada accanto a loro” ovunque siano, offrendo stimoli e spunti di crescita interiore ed esistenziale. E sul livello adulti e famiglie, ricostruire delle comunità domestiche, “fuori dal tempio”, dove si condivida la vita, si trasmetta il Vangelo, si facciano scelte coraggiose insieme per essere lievito nella pasta.

Fonte: Città nuova - da: Silvano Gianti

sabato 6 ottobre 2018

SINODO GIOVANI - DISCORSO DI PAPA FRANCESCO - FREQUENTARE IL FUTURO

Cari fratelli e sorelle, carissimi giovani!
Entrando in quest’aula per parlare dei giovani, si sente già la forza della loro presenza che emana positività ed entusiasmo, capaci di invadere e rallegrare non solo quest’aula, ma tutta la Chiesa e il mondo intero.
Ecco perché non posso cominciare senza dirvi grazie! Grazie a voi presenti, grazie a tante persone che lungo un cammino di preparazione di due anni – qui nella Chiesa di Roma e in tutte le Chiese del mondo – hanno lavorato con dedizione e passione per farci giungere a questo momento. Grazie di cuore al Cardinale Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo, ai Presidenti Delegati, al Cardinale Sérgio da Rocha, Relatore Generale; a Mons. Fabio Fabene, Sotto-Segretario, agli Officiali della Segreteria Generale e agli Assistenti; grazie a tutti voi, Padri sinodali, Uditori, Uditrici, esperti e consultori; ai Delegati fraterni; ai traduttori, ai cantori, ai giornalisti. Grazie di cuore a tutti per la vostra partecipazione attiva e feconda.
Un grazie sentito meritano i due Segretari Speciali, Padre Giacomo Costa, gesuita, e Don Rossano Sala, salesiano, che hanno lavorato generosamente con impegno e abnegazione. Hanno lasciato la pelle, nella preparazione!
Desidero anche ringraziare vivamente i giovani collegati con noi, in questo momento, e tutti i giovani che in tanti modi hanno fatto sentire la loro voce. Li ringrazio per aver voluto scommettere che vale la pena di sentirsi parte della Chiesa o di entrare in dialogo con essa; vale la pena di avere la Chiesa come madre, come maestra, come casa, come famiglia, capace, nonostante le debolezze umane e le difficoltà, di brillare e trasmettere l’intramontabile messaggio di Cristo; vale la pena di aggrapparsi alla barca della Chiesa che, pur attraverso le tempeste impietose del mondo, continua ad offrire a tutti rifugio e ospitalità; vale la pena di metterci in ascolto gli uni degli altri; vale la pena di nuotare controcorrente e di legarsi ai valori alti: la famiglia, la fedeltà, l’amore, la fede, il sacrificio, il servizio, la vita eterna. La nostra responsabilità qui al Sinodo è di non smentirli, anzi, di dimostrare che hanno ragione a scommettere: davvero vale la pena, davvero non è tempo perso!
E ringrazio in particolare voi, cari giovani presenti! Il cammino di preparazione al Sinodo ci ha insegnato che l’universo giovanile è talmente variegato da non poter essere rappresentato totalmente, ma voi ne siete certamente un segno importante. La vostra partecipazione ci riempie di gioia e di speranza.
II Sinodo che stiamo vivendo è un momento di condivisione. Desidero dunque, all’inizio del percorso dell’Assemblea sinodale, invitare tutti a parlare con coraggio e parresia, cioè integrando libertà, verità e carità. Solo il dialogo può farci crescere. Una critica onesta e trasparente è costruttiva e aiuta, mentre non lo fanno le chiacchiere inutili, le dicerie, le illazioni oppure i pregiudizi.
E al coraggio del parlare deve corrispondere l’umiltà dell’ascoltare. Dicevo ai giovani nella Riunione pre-sinodale: «Se parla quello che non mi piace, devo ascoltarlo di più, perché ognuno ha il diritto di essere ascoltato, come ognuno ha il diritto di parlare». Questo ascolto aperto richiede coraggio nel prendere la parola e nel farsi voce di tanti giovani del mondo che non sono presenti. È questo ascolto che apre lo spazio al dialogo. Il Sinodo dev’essere un esercizio di dialogo, anzitutto tra quanti vi partecipano. E il primo frutto di questo dialogo è che ciascuno si apra alla novità, a modificare la propria opinione grazie a quanto ha ascoltato dagli altri. Questo è importante per il Sinodo. Molti di voi hanno già preparato il loro intervento prima di venire – e vi ringrazio per questo lavoro –, ma vi invito a sentirvi liberi di considerare quanto avete preparato come una bozza provvisoria aperta alle eventuali integrazioni e modifiche che il cammino sinodale potrebbe suggerire a ciascuno. Sentiamoci liberi di accogliere e comprendere gli altri e quindi di cambiare le nostre convinzioni e posizioni: è segno di grande maturità umana e spirituale.
Il Sinodo è un esercizio ecclesiale di discernimento. Franchezza nel parlare e apertura nell’ascoltare sono fondamentali affinché il Sinodo sia un processo di discernimento. Il discernimento non è uno slogan pubblicitario, non è una tecnica organizzativa, e neppure una moda di questo pontificato, ma un atteggiamento interiore che si radica in un atto di fede. Il discernimento è il metodo e al tempo stesso l’obiettivo che ci proponiamo: esso si fonda sulla convinzione che Dio è all’opera nella storia del mondo, negli eventi della vita, nelle persone che incontro e che mi parlano. Per questo siamo chiamati a metterci in ascolto di ciò che lo Spirito ci suggerisce, con modalità e in direzioni spesso imprevedibili. Il discernimento ha bisogno di spazi e di tempi. Per questo dispongo che durante i lavori, in assemblea plenaria e nei gruppi, ogni 5 interventi si osservi un momento di silenzio – circa tre minuti – per permettere ad ognuno di prestare attenzione alle risonanze che le cose ascoltate suscitano nel suo cuore, per andare in profondità e cogliere ciò che colpisce di più. Questa attenzione all’interiorità è la chiave per compiere il percorso del riconoscere, interpretare e scegliere.
Siamo segno di una Chiesa in ascolto e in cammino. L’atteggiamento di ascolto non può limitarsi alle parole che ci scambieremo nei lavori sinodali. Il cammino di preparazione a questo momento ha evidenziato una Chiesa “in debito di ascolto” anche nei confronti dei giovani, che spesso dalla Chiesa si sentono non compresi nella loro originalità e quindi non accolti per quello che sono veramente, e talvolta persino respinti. Questo Sinodo ha l’opportunità, il compito e il dovere di essere segno della Chiesa che si mette davvero in ascolto, che si lascia interpellare dalle istanze di coloro che incontra, che non ha sempre una risposta preconfezionata già pronta. Una Chiesa che non ascolta si mostra chiusa alla novità, chiusa alle sorprese di Dio, e non potrà risultare credibile, in particolare per i giovani, che inevitabilmente si allontaneranno anziché avvicinarsi.
Usciamo da pregiudizi e stereotipi. Un primo passo nella direzione dell’ascolto è liberare le nostre menti e i nostri cuori da pregiudizi e stereotipi: quando pensiamo di sapere già chi è l’altro e che cosa vuole, allora facciamo davvero fatica ad ascoltarlo sul serio. I rapporti tra le generazioni sono un terreno in cui pregiudizi e stereotipi attecchiscono con una facilità proverbiale, tanto che spesso nemmeno ce ne rendiamo conto. I giovani sono tentati di considerare gli adulti sorpassati; gli adulti sono tentati di ritenere i giovani inesperti, di sapere come sono e soprattutto come dovrebbero essere e comportarsi. Tutto questo può costituire un forte ostacolo al dialogo e all’incontro tra le generazioni. La maggior parte dei presenti non appartiene alla generazione dei giovani, per cui è chiaro che dobbiamo fare attenzione soprattutto al rischio di parlare dei giovani a partire da categorie e schemi mentali ormai superati. Se sapremo evitare questo pericolo, allora contribuiremo a rendere possibile un’alleanza tra generazioni. Gli adulti dovrebbero superare la tentazione di sottovalutare le capacità dei giovani e di giudicarli negativamente. Avevo letto una volta che la prima menzione di questo fatto risale al 3000 a.C. ed è stata trovata su un vaso di argilla dell’antica Babilonia, dove c’è scritto che la gioventù è immorale e che i giovani non sono in grado di salvare la cultura del popolo. È una vecchia tradizione di noi vecchi! I giovani invece dovrebbero superare la tentazione di non prestare ascolto agli adulti e di considerare gli anziani “roba antica, passata e noiosa”, dimenticando che è stolto voler ricominciare sempre da zero come se la vita iniziasse solo con ciascuno di loro. In realtà, gli anziani, nonostante la loro fragilità fisica, rimangono sempre la memoria della nostra umanità, le radici della nostra società, il “polso” della nostra civiltà. Disprezzarli, scaricarli, chiuderli in riserve isolate oppure snobbarli è indice di un cedimento alla mentalità del mondo che sta divorando le nostre case dall’interno. Trascurare il tesoro di esperienze che ogni generazione eredita e trasmette all’altra è un atto di autodistruzione.
Occorre quindi, da una parte, superare con decisione la piaga del clericalismo. Infatti, l’ascolto e l’uscita dagli stereotipi sono anche un potente antidoto contro il rischio del clericalismo, a cui un’assemblea come questa è inevitabilmente esposta, al di là delle intenzioni di ciascuno di noi. Esso nasce da una visione elitaria ed escludente della vocazione, che interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire; e ciò conduce a ritenere di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e di imparare nulla, o fa finta di ascoltare. Il clericalismo è una perversione ed è radice di tanti mali nella Chiesa: di essi dobbiamo chiedere umilmente perdono e soprattutto creare le condizioni perché non si ripetano.
Occorre però, d’altra parte, curare il virus dell’autosufficienza e delle affrettate conclusioni di molti giovani. Dice un proverbio egiziano: “Se nella tua casa non c’è l’anziano, compralo, perché ti servirà”. Ripudiare e rigettare tutto ciò che è stato trasmesso nei secoli porta soltanto al pericoloso smarrimento che purtroppo sta minacciando la nostra umanità; porta allo stato di disillusione che ha invaso i cuori di intere generazioni. L’accumularsi delle esperienze umane, lungo la storia, è il tesoro più prezioso e affidabile che le generazioni ereditano l’una dall’altra. Senza scordare mai la rivelazione divina, che illumina e dà senso alla storia e alla nostra esistenza.
Fratelli e sorelle, che il Sinodo risvegli i nostri cuori! Il presente, anche quello della Chiesa, appare carico di fatiche, di problemi, di pesi. Ma la fede ci dice che esso è anche il kairos in cui il Signore ci viene incontro per amarci e chiamarci alla pienezza della vita. Il futuro non è una minaccia da temere, ma è il tempo che il Signore ci promette perché possiamo fare esperienza della comunione con Lui, con i fratelli e con tutta la creazione. Abbiamo bisogno di ritrovare le ragioni della nostra speranza e soprattutto di trasmetterle ai giovani, che di speranza sono assetati; come ben affermava il Concilio Vaticano II: «Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (Cost. past. Gaudium et spes, 31).
L’incontro tra le generazioni può essere estremamente fecondo in ordine a generare speranza. Ce lo insegna il profeta Gioele in quella che – lo ricordavo anche ai giovani della Riunione pre-sinodale – ritengo essere la profezia dei nostri tempi: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1) e profetizzeranno.
Non c’è bisogno di sofisticate argomentazioni teologiche per mostrare il nostro dovere di aiutare il mondo contemporaneo a camminare verso il regno di Dio, senza false speranze e senza vedere soltanto rovine e guai. Infatti, San Giovanni XXIII, parlando delle persone che valutano i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio, affermò: «Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita» (Discorso per la solenne apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962).
Non lasciarsi dunque tentare dalle “profezie di sventura”, non spendere energie per «contabilizzare fallimenti e rinfacciare amarezze», tenere fisso lo sguardo sul bene che «spesso non fa rumore, non è tema dei blog né arriva sulle prime pagine», e non spaventarsi «davanti alle ferite della carne di Cristo, sempre inferte dal peccato e non di rado dai figli della Chiesa» (cfr Discorso ai Vescovi di recente nomina partecipanti al corso promosso dalle Congregazioni per i Vescovi e per le Chiese Orientali, 13 settembre 2018).
Impegniamoci dunque nel cercare di “frequentare il futuro”, e di far uscire da questo Sinodo non solo un documento – che generalmente viene letto da pochi e criticato da molti –, ma soprattutto propositi pastorali concreti, in grado di realizzare il compito del Sinodo stesso, ossia quello di far germogliare sognisuscitare profezie e visionifar fiorire speranzestimolare fiduciafasciare feriteintrecciare relazionirisuscitare un’alba di speranzaimparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo. Grazie.

Fonte: Sala Stampa Vaticana