sabato 29 luglio 2017

UN TESORO NASCOSTO

Gesù nel tesoro nascosto ci dà la certezza della felicità

 Vangelo della domenica:
“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
 Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. 
Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì».

Un contadino e un mercante trovano tesori. Accade a uno che, per caso, senza averlo programmato, tra rovi e sassi, su un campo non suo, resta folgorato dalla scoperta e dalla gioia. Accade a uno che invece, da intenditore appassionato e determinato, gira il mondo dietro il suo sogno.
Due modalità che sembrano contraddirsi, ma il Vangelo è liberante: l'incontro con Dio non sopporta statistiche, è possibile a tutti trovarlo o essere trovati da lui, sorpresi da una luce sulla via di Damasco, oppure da un Dio innamorato di normalità, che passa, come dice Teresa d'Avila, "fra le pentole della cucina", che è nel tuo campo di ogni giorno, là dove vivi e lavori e ami, come un contadino paziente.
Tesoro e perla: nomi bellissimi che Gesù sceglie per dire la rivoluzione felice portata nella vita dal Vangelo. La fede è una forza vitale che ti cambia la vita. E la fa danzare.
«Trovato il tesoro, l'uomo pieno di gioia va, vende tutti i suoi averi e compra quel campo». La gioia è il primo tesoro che il tesoro regala, è il movente che fa camminare, correre, volare: per cui vendere tutti gli averi non porta con sé nessun sentore di rinuncia (Gesù non chiede mai sacrifici quando parla del Regno), sembra piuttosto lo straripare di un futuro nuovo, di una gioiosa speranza.
Niente di quello di prima viene buttato via. Il contadino e il mercante vendono tutto, ma per guadagnare tutto. Lasciano molto, ma per avere di più. Non perdono niente, lo investono. Così sono i cristiani: scelgono e scegliendo bene guadagnano. Non sono più buoni degli altri, ma più ricchi: hanno investito in un tesoro di speranza, di luce, di cuore.
I discepoli non hanno tutte le soluzioni in tasca, ma cercano. Lo stesso credere è un verbo dinamico, bisogna sempre muoversi, sempre cercare, proiettarsi, pescare; lavorare il campo, scoprire sempre, camminare sempre, tirar fuori dal tesoro cose nuove e cose antiche.
 Mi piace accostare a queste parabole un episodio accaduto a uno studente di teologia, all'esame di pastorale. L'ultima domanda del professore lo spiazza: «come spiegheresti a un bambino di sei anni perché tu vai dietro a Cristo e al Vangelo?». Lo studente cerca risposte nell'alta teologia, usa paroloni, cita documenti, ma capisce che si sta incartando. Alla fine il professore fa: «digli così: lo faccio per essere felice!». È la promessa ultima delle due parabole del tesoro e della perla, che fanno fiorire la vita.
Anche in giorni disillusi come i nostri, il Vangelo osa annunciare tesori. Osa dire che l'esito della storia sarà buono, comunque buono, nonostante tutto buono. Perché Qualcuno prepara tesori per noi, semina perle nel mare dell'esistenza.


(Letture: Primo Libro dei Re 3, 5.7-12; Salmo 118; Romani 8, 28-30; Matteo 13, 44-52)

giovedì 27 luglio 2017

SONO UN PILOTA!

Le persone mi chiedono se non ho mai paura. 
Si. 
Si a volte ho paura. Ho paura di attraversare la strada quando sono di fretta, per un motivo che nella maggioranza delle volte non mi appartiene. Paura di essere investito da un imbecille ubriaco e restare sull’asfalto senza capire nemmeno cosa mi sia successo.

Le persone mi chiedono se non mi sembra pericoloso ciò che faccio.
Si.
Si è pericoloso. Però non come fumare, compromettendo polmoni e cuore, respirando veleno di mia spontanea volontà. Non come stressarmi per mille motivi, con l’infarto in agguato, solo per sopravivere in questo delirio quotidiano.

Le persone mi chiedono perché ho scelto una disciplina fuori dagli schemi delle persone normali.
Si.
Si è fuori dagli schemi. Non quanto la vita folle che si fa per lavoro, una vita che non concede nulla a te stesso. Una vita che non fa che succhiarti l’energia per darti in cambio preoccupazioni su preoccupazioni e che se va bene ti dà la possibilità di comprare delle cose di cui nel profondo non ti frega quasi nulla.

Le persone mi chiedono se accadono incidenti.
Si.
Si accadono. Mai però gravi come un Ictus, che ti riduce un vegetale o quasi magari a cinquant’anni. Che ti fa diventare un peso per gli altri. Che ti fa guardare il mondo da dietro un velo di nulla. Che ti fa essere un’immagine di pena e tristezza per chiunque ti veda.

Le persone mi chiedono se questi mezzi sono sicuri.
No.
Non sempre lo sono. Mai però come una vita che si sfalda per ragioni inaspettate, come una unione di coppia che naufraga. Come una vita di lavoro che crolla e ti lascia pieno di debiti.

Le persone mi chiedono se questi mezzi cadono.
Si.
Si a volte cadono. Mai però come cade un uomo quando finisce in una corsia di ospedale per una malattia incurabile e perde tutta la sua dignità. Come un alcolizzato consapevole di distruggere la propria esistenza eppure continua, come un drogato che si uccide lentamente con dei veleni che finisce per odiare.

Le persone mi chiedono se non potevo evitare questi rischi.
Si. 
Si potevo ma non voglio. Non voglio evitare il rischio di essere felice lassù. Se proprio potessi, vorrei evitare di morire in un letto, vecchio, inconsapevole e fuori di testa. Circondato da persone che a causa della mia condizione e del mio peso nelle loro vite, quasi non riescono più a provare amore per me ma solo una sommessa pena.

Ci sono più morti per milioni di altri motivi che per questo sogno.
E se nel mio destino fosse davvero scritto che proprio nelle ali, sia il mio aeroporto di arrivo, lo accetterò con gratitudine. La gratitudine di un uomo a cui sono state risparmiate infinite sofferenze e umiliazioni. La consapevolezza di aver lasciato per sempre questo terreno a cui non mi sono sentito forse mai troppo legato, in cambio di un ultimo volo senza uguali. La gioia di aver portato negli occhi paesaggi e tramonti meravigliosi, l’aver visto fiumi e case scorrere sotto di me, aver avuto prati da accarezzare con gli occhi nelle loro infinite sfumature. Colori di cielo negati agli altri. La meraviglia e lo stupore di ogni decollo, il rumore amico del motore che ti imprime la spinta, il coraggio delle ali che ti sostengono, la libertà di ogni virata e la pace profonda dopo ogni atterraggio.
Le persone mi chiedono se vale la pena fare tanti sforzi per volare. 
Si.
Si ne vale la pena.

                                      Patrizio Polce, pilota.

mercoledì 26 luglio 2017

CONSUMARSI PER FARE LUCE

In una chiesa, accanto ad un cero acceso, ho trovato un foglio con questa preghiera: “Una candela da sola non prega; ma tu, Signore, fa che questa candela che io accendo, sia luce che mi illumini nelle mie difficoltà e nelle mie decisioni; sia fuoco che bruci in me tutto l’orgoglio e l’egoismo; sia fiamma che riscaldi il mio cuore e mi insegni ad amare.
Signore, io non posso restare molto tempo in chiesa; ma nel lasciar ardere questa candela, è un po’ di me stesso che voglio donarti e aiutami a prolungare la mia preghiera nelle attività di questo giorno”.
Perché proprio la candela? Forse perché composta di cera e di luce. È una fiammella guizzante che sembra mormorare qualcosa. È lingua lucente, grazie alla cera che si lascia consumare. Un cero vale per quanta fiamma, consumandosi, suscita e ravviva.
Tu, cera, non invidiare la leggerezza e la mobilità della fiamma che tende verso l’alto. Il tuo peso è necessario alla fiamma; solo con te può abitare nella casa di coloro che hanno bisogno della tua luce. Anche Gesù, fiamma di Dio, ha avuto bisogno di abitare la pesantezza della cera umana per illuminare ogni uomo che abita in questo mondo.
La linguetta vibrante di quella fiammella sembra dire a tutti quelli che sostano davanti al tabernacolo: Non lamentarti quando ti senti cera pesante, opaca ed inerte. Puoi accenderti e riaccenderti ad ogni scintilla di Dio. Sposa ogni scintilla e illuminerai tutta la chiesa.
Non risparmiare la cera: ti spegneresti. Ruberesti la luce di cui hanno diritto coloro che ti girano attorno. Accetta gioioso il processo di annientamento e inizierà in tè a brillare una fiamma che non si spegnerà.
Ti sembrerà di scomparire; ma invece vivrai nelle mille candele che da te si sono accese e vivrai per sempre nell’incendio che la tua fiammella ha scatenato nel mondo. È vero che tu ti consumi, ma è più esatto dire che mentre ti consumi per amore generi la luce; ti consumi per essere Colui per il quale ti doni.
Forse per questi ed altri motivi trova senso la candela accesa davanti ad un altare.
Ciao da P. Andrea

Per richiedere copie dei libretti di padre Andrea Panont e per ogni approfondimento si può cliccare qui.

lunedì 24 luglio 2017

Papa Francesco: I BUONI e I CATTIVI

“Il bene e il male non si possono identificare con territori definiti o determinati gruppi umani.” Lo ha affermato papa Francesco nel corso della sua catechesi prima dell’Angelus di domenica 23 luglio 2017.
Non ci sono i buoni da un lato e i cattivi dall’altro, ha detto il Pontefice, ma occorre comprendere che “la linea di confine tra il bene e il male passa nel cuore di ogni persona”.
“In questo mondo — ha spiegato Francesco — il bene e il male sono talmente intrecciati, che è impossibile separarli ed estirpare tutto il male”. Quindi l’unica cosa da fare è compiere “il difficile esercizio del discernimento fra il bene e il male”.
Jorge Bergoglio ha invitato i battezzati a “prendere le distanze dal maligno e dalle sue seduzioni”, ben sapendo che “siamo tutti peccatori”, “abbiamo sempre bisogno di essere perdonati dai nostri peccati”.
“Guardare sempre e soltanto il male che sta fuori di noi, significa non voler riconoscere il peccato che c’è anche in noi”, ha avvertito Francesco, che ha dichiarato di “preferire una Chiesa che è lievito nella pasta, che non teme di sporcarsi le mani lavando i panni dei suoi figli, piuttosto che una Chiesa di ‘puri’, che pretende di giudicare prima del tempo chi sta nel Regno di Dio e chi no”.

Da: www.zenit.org 
Di seguito il testo completo della catechesi di papa Francesco


martedì 18 luglio 2017

PAOLO BORSELLINO: UN ESEMPIO PER TUTTI

La lezione semplice di Borsellino: fare il proprio dovere


Nel libro di Alessandra Turrisi, “L’uomo giusto”, il ritratto inedito del giudice ucciso a Palermo dalla mafia, il 19 luglio 1992.
 Il racconto delle persone a lui più care: 
«Non fu un eroe, ma un esempio per tutti»

            «Chissà se il buon Dio perdonerà Palermo », canta, come una preghiera, Carmen Consoli in un brano dedicato all’Esercito silente di una Palermo «baciata da sole e mare», che fa i conti con «antichi rancori e ferite aperte » e che ogni giorno lotta per il riscatto: rispetto al passato insanguinato e al presente di chi non vuole che la città cambi.     
                Contro chi crede che basti decapitare una statua di Giovanni Falcone davanti alla scuola a lui intitolata allo Zen o bruciare la foto simbolo in cui Falcone e Borsellino sono insieme sorridenti, per cancellare la sfida nuova di Palermo, quella di «Giovanni e Paolo, ancora vivi» e il loro esempio di «compiere il proprio dovere», fino in fondo. È il messaggio che emerge con forza, ma con un tono mite, senza sensazionalismi, dal libro di Alessandra Turrisi, Paolo Borsellino, l’uomo giusto( San Paolo, pagine 120, euro 15,00), in cui la giornalista, collaboratrice di Avvenire, ripercorre la figura esemplare del magistrato siciliano ucciso dalla mafia – il 19 luglio 1992, nella strage di via D’Amelio – attraverso le voci delle sue amicizie più intime, i racconti di chi lo ha conosciuto più da vicino, che in maniera semplice e profonda scavano nella memoria dei giorni trascorsi con Paolo. C’è il ricordo appassionato di Diego Cavaliero (oggi giudice alla Corte d’Appello di Salerno), uditore giudiziario quando Borsellino era procuratore a Marsala, con cui costruirà una salda amicizia durata tutta la vita: il 12 luglio del 1992 Borsellino era da lui in Campania per fare da padrino di battesimo al figlio Massimo: «Ma non è Paolo quello che ho di fronte, è completamente diverso ». C’è il cardiologo Pietro Di Pasquale che ripercorre minuto per minuto quella domenica surreale. C’è il barbiere Paolino Biondo, da cui andava ogni quindici giorni: «Paulì, me li tagli i capelli?». C’è don Cesare Rattoballi, parroco dell’Annunciazione del Signore, che raccoglie le sue ultime confessioni: «Ora tocca a me». C’è la sua famiglia – la moglie Agnese, i figli Lucia, Fiammetta e Manfredi – ma sempre sullo sfondo. Ci sono i superstiti, i “miracolati” di chi doveva essere lì e per fortuna non c’era.
           Quello che ci offre la Turrisi è un affresco inedito ed emozionante non di un eroe, ma di un uomo con un «sorriso di accoglienza» e una «risata contagiosa», severo ma «giusto », di grande fede, che «quando va in Chiesa, entra in ginocchio ed esce in ginocchio», «un padre, con tutte le sue debolezze, un figlio fino alla fine vicino alla madre». Un magistrato che «ha voluto compiere fino in fondo il proprio dovere», senza compromessi, ecco. «Accettando il rischio», qualunque siano – è lui che parla – «le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio. E vorrei dire, anche di come lo faccio». Senza lasciarsi «condizionare dalla sensazione o dalla certezza che tutto questo può costarci caro». Parole pronunciate venti giorni dopo l’uccisione di Falcone, quando sapeva bene che il prossimo sarebbe stato lui. Il suo testamento morale, divenuto patrimonio di tutti, è in quel discorso al termine della marcia organizzata dall’Agesci in ricordo dell’amico Giovanni, nella chiesa di San Domenico, il 20 giugno 1992: «La lotta alla mafia non doveva essere soltanto un’opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità». Come? «Facendo il nostro dovere, rispettando le leggi. Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo!».
         Il 19 luglio 1992, alle 16.58, una Fiat 126 imbottita di tritolo, viene fatta esplodere in via D’Amelio. Non c’è scampo per il giudice Borsellino e per cinque agenti di scorta, i suoi “angeli custodi”. «Quel pomeriggio – scrive Turrisi – un cazzotto nello stomaco colpisce i palermitani e non solo». Ma Palermo non sarà più la stessa. Dopo 25 anni «Paolo e Giovanni sono ancora vivi». E chissà se il «buon Dio perdonerà Palermo».
Giuseppe Matarazzo

Da Avvenire

martedì 11 luglio 2017

LO SCAUTISMO E IL LAVORO

CONTRIBUTO ASSOCIAZIONI SCOUT CATTOLICHE SUL TEMA DEL LAVORO 

            Per la Settimana sociale dei cattolici italiani 2017

CONTRIBUTO ASSOCIAZIONI SCOUT CATTOLICHE SUL TEMA DEL LAVORO 

Per la Settimana sociale dei cattolici italiani 2017






Il contributo dello scoutismo cattolico sul tema del lavoro “non può che essere incentrato sul ruolo che il metodo scout ha nella crescita delle persone e nella loro educazione permanente”. Lo scrivono in un documento i presidenti Sonia Mondin (Masci, Movimento adulti scout cattolici italiani), Antonio Zoccoletto (Fse, Associazione italiana guide e scout d’Europa cattolici), Barbara Battilana e Matteo Spanò (Agesci, Associazioni guide e scout cattolici italiani) in vista della 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani (Cagliari, 26-29 ottobre 2017). Un metodo che, a seconda delle “diverse stagioni della vita, è capace di evolversi per essere al passo con i tempi in cui viene vissuto, mantenendo fermi gli ideali e i valori rappresentati dalla Legge e dalla Promessa scout”.

Le associazioni giovanili scout si rivolgono a fasce di età che sono “ben lontane dal solo pensiero del loro futuro lavorativo”. Di conseguenza, si osserva nel contributo, “non hanno soluzioni da offrire sotto il profilo normativo o indicazioni da suggerire in relazione a politiche sociali che possano essere adottate per migliorare le condizioni del lavoro nel nostro Paese”. Ma, “dal nostro osservatorio, riteniamo di poter essere utili per aiutare a cogliere le aspettative e i desideri delle nuove generazioni”.

Mentre la sfida per lo scout adulto consiste nel “riconoscere e interpretare ogni forma di cambiamento, in una continua esplorazione della città, della Chiesa e dei propri ambienti di vita, in vista dell’approccio con una cultura del lavoro fortemente mutata e in continua evoluzione”.

Inoltre, “nel difficile quadro economico” in cui “viviamo, con le sue ricadute sull’offerta e domanda di lavoro”, emerge “la necessità di avere giovani formati nel ‘carattere’, per affrontare le sfide del domani. Lo scautismo parte dal presupposto che ciascuno possa crescere, con l’aiuto degli altri, per guidare da solo la propria canoa”.

I valori incarnati dello scautismo, prosegue il documento, “chiedono all’adulto di essere capace di discernere, testimoniare e promuovere nuovi stili di vita, per un cambiamento personale e collettivo che salvaguardi il pianeta, il bene comune, la convivenza e la giustizia sociale, in una prospettiva di speranza per le nuove generazioni”. In sostanza si tratta di dare “una diversa prospettiva alla dimensione pedagogica del metodo scout che passi, nel caso dell’adulto, dalla dimensione esperienziale alla dimensione testimoniale”.

Qualche mese fa “Forbes” (celebre rivista statunitense di economia e finanza) ha pubblicato l’articolo “I dieci motivi per assumere uno scout”, elencando “competenze e valori” che “uno scout interiorizza e sviluppa nel suo cammino educativo, al punto da renderlo particolarmente affidabile nel posto di lavoro. Non sappiamo – così nel contributo – se la ricerca legittimi questa considerazione, ma i valori e le competenze che sono declinati nella Legge scout – a sua volta riflesso della Legge divina – costituiscono il sentiero di crescita proposto ai giovani che le famiglie ci affidano”.

Il messaggio cristiano, “di cui siamo portatori – aggiunge il documento –, può diventare cultura e illuminare la politica proprio a partire dal rispetto per l’uomo, per la sua dignità e per i suoi diritti, in primis dai luoghi e dagli ambienti che abitiamo”. Per le persone che ritengono di “aver incarnato nel loro cammino di crescita i valori scout, non è sufficiente fare esclusivo affidamento sulla loro responsabilità di singoli, ma è un dovere impegnarsi per attivare processi di cooperazione con tutti gli attori in campo: lavoratori, sindacati, imprenditori, governo e istituzioni, sia a livello locale che a livello nazionale”.

Il lavoro, conclude il contributo, “deve essere espressione di legalità: non è più a lungo sopportabile” vedere “i ragazzi convinti che non esiste un futuro per loro, essendo tutto in mano sia alla raccomandazione che al lavoro sommerso e che sfrutta. È necessario un cambio di mentalità a tutti i livelli. Una riflessione sulla giustizia della ripartizione dei proventi del lavoro”: un’“equità” che possa dare “dignità ad ogni persona”.

lunedì 10 luglio 2017

L'AEREO E LA TARTARUGA

Non circolava buon sangue tra una tartaruga e un aereo. La tartaruga era stanca di sentirselo passare sopra così chiassoso, assordante, capace, secondo lei, solo di panoramiche superficiali, senza poter approfondire ciò che vede.
Ma un giorno la tartaruga, inosservata, ha potuto osservare l’aereo fermo in pista; ne ammirò la grandezza e venne a conoscenza dell’enorme servizio prestato all’uomo. In breve stemperò il proprio giudizio negativo. Si mise davanti al muso della fusoliera e i due rivali, con crescente stima reciproca, intrecciarono un meraviglioso dialogo.
Lei gli confidò che avrebbe desiderato vedere tutte le cose belle che si contemplano dall’alto dei diecimila metri…E l’aereo gliele descrisse, lasciandola a bocca aperta.
Ma anche l’aereo, al termine del suo racconto, confidò alla tartaruga il suo rammarico di non poter, come lei, contemplare le cose da vicino.
Alla tartaruga non pareva vera la curiosità dell’aereo. Gli raccontò, quasi senza riprendere fiato, le meraviglie del bosco, del sottobosco, la vita che ferve nei giardini, sotto ogni foglia, il profumo e il colore che si gode passando accanto ad ogni fiore e annusando ogni petalo di rosa. E i rapporti che intercorrono tra le formiche, le talpe, le marmotte…Era tanto l’interesse nell’ascolto che essa non avrebbe mai finito di parlare.
L’aereo non si lasciò sfuggire l’occasione di ringraziarla di essere tartaruga per lui e la tartaruga – a sua volta – lo ringraziò di essere aereo per lei, d’aver trovato qualcuno a cui interessava la sua vita.
Siamo creati come dono reciproco.

Ciao da P. Andrea Panont
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