La lezione semplice di Borsellino:
fare il proprio dovere
Nel libro di Alessandra Turrisi, “L’uomo giusto”, il ritratto inedito
del giudice ucciso a Palermo dalla mafia, il 19 luglio 1992.
Il racconto delle persone a lui più care:
Il racconto delle persone a lui più care:
«Non fu un eroe, ma un esempio per tutti»
«Chissà
se il buon Dio perdonerà Palermo », canta, come una preghiera, Carmen Consoli
in un brano dedicato all’Esercito silente di una Palermo «baciata da sole e
mare», che fa i conti con «antichi rancori e ferite aperte » e che ogni giorno
lotta per il riscatto: rispetto al passato insanguinato e al presente di chi
non vuole che la città cambi.
Contro chi crede che basti decapitare una statua
di Giovanni Falcone davanti alla scuola a lui intitolata allo Zen o bruciare la
foto simbolo in cui Falcone e Borsellino sono insieme sorridenti, per
cancellare la sfida nuova di Palermo, quella di «Giovanni e Paolo, ancora vivi»
e il loro esempio di «compiere il proprio dovere», fino in fondo. È il
messaggio che emerge con forza, ma con un tono mite, senza sensazionalismi, dal
libro di Alessandra Turrisi, Paolo Borsellino, l’uomo giusto( San Paolo, pagine
120, euro 15,00), in cui la giornalista, collaboratrice di Avvenire, ripercorre
la figura esemplare del magistrato siciliano ucciso dalla mafia – il 19 luglio
1992, nella strage di via D’Amelio – attraverso le voci delle sue amicizie più
intime, i racconti di chi lo ha conosciuto più da vicino, che in maniera
semplice e profonda scavano nella memoria dei giorni trascorsi con Paolo. C’è
il ricordo appassionato di Diego Cavaliero (oggi giudice alla Corte d’Appello
di Salerno), uditore giudiziario quando Borsellino era procuratore a Marsala,
con cui costruirà una salda amicizia durata tutta la vita: il 12 luglio del
1992 Borsellino era da lui in Campania per fare da padrino di battesimo al
figlio Massimo: «Ma non è Paolo quello che ho di fronte, è completamente
diverso ». C’è il cardiologo Pietro Di Pasquale che ripercorre minuto per
minuto quella domenica surreale. C’è il barbiere Paolino Biondo, da cui andava
ogni quindici giorni: «Paulì, me li tagli i capelli?». C’è don Cesare
Rattoballi, parroco dell’Annunciazione del Signore, che raccoglie le sue ultime
confessioni: «Ora tocca a me». C’è la sua famiglia – la moglie Agnese, i figli
Lucia, Fiammetta e Manfredi – ma sempre sullo sfondo. Ci sono i superstiti, i
“miracolati” di chi doveva essere lì e per fortuna non c’era.
Quello
che ci offre la Turrisi è un affresco inedito ed emozionante non di un eroe, ma
di un uomo con un «sorriso di accoglienza» e una «risata contagiosa», severo ma
«giusto », di grande fede, che «quando va in Chiesa, entra in ginocchio ed esce
in ginocchio», «un padre, con tutte le sue debolezze, un figlio fino alla fine
vicino alla madre». Un magistrato che «ha voluto compiere fino in fondo il
proprio dovere», senza compromessi, ecco. «Accettando il rischio», qualunque
siano – è lui che parla – «le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove
lo faccio. E vorrei dire, anche di come lo faccio». Senza lasciarsi
«condizionare dalla sensazione o dalla certezza che tutto questo può costarci
caro». Parole pronunciate venti giorni dopo l’uccisione di Falcone, quando
sapeva bene che il prossimo sarebbe stato lui. Il suo testamento morale,
divenuto patrimonio di tutti, è in quel discorso al termine della marcia
organizzata dall’Agesci in ricordo dell’amico Giovanni, nella chiesa di San
Domenico, il 20 giugno 1992: «La lotta alla mafia non doveva essere soltanto
un’opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse
tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la
bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del
compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della
complicità». Come? «Facendo il nostro dovere, rispettando le leggi. Rifiutando
di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (gli aiuti,
le raccomandazioni, i posti di lavoro); dimostrando a noi stessi e al mondo che
Falcone è vivo!».
Il
19 luglio 1992, alle 16.58, una Fiat 126 imbottita di tritolo, viene fatta
esplodere in via D’Amelio. Non c’è scampo per il giudice Borsellino e per
cinque agenti di scorta, i suoi “angeli custodi”. «Quel pomeriggio – scrive
Turrisi – un cazzotto nello stomaco colpisce i palermitani e non solo». Ma
Palermo non sarà più la stessa. Dopo 25 anni «Paolo e Giovanni sono ancora
vivi». E chissà se il «buon Dio perdonerà Palermo».
Giuseppe Matarazzo
Da Avvenire
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