Cari fratelli e sorelle, carissimi giovani!
Entrando in quest’aula per parlare dei giovani, si sente già la forza
della loro presenza che emana positività ed entusiasmo, capaci di
invadere e rallegrare non solo quest’aula, ma tutta la Chiesa e il mondo
intero.
Ecco perché non posso cominciare senza dirvi grazie! Grazie
a voi presenti, grazie a tante persone che lungo un cammino di
preparazione di due anni – qui nella Chiesa di Roma e in tutte le Chiese
del mondo – hanno lavorato con dedizione e passione per farci giungere a
questo momento. Grazie di cuore al Cardinale Lorenzo Baldisseri,
Segretario Generale del Sinodo, ai Presidenti Delegati, al Cardinale
Sérgio da Rocha, Relatore Generale; a Mons. Fabio Fabene,
Sotto-Segretario, agli Officiali della Segreteria Generale e agli
Assistenti; grazie a tutti voi, Padri sinodali, Uditori, Uditrici,
esperti e consultori; ai Delegati fraterni; ai traduttori, ai cantori,
ai giornalisti. Grazie di cuore a tutti per la vostra partecipazione
attiva e feconda.
Un grazie sentito meritano i due Segretari Speciali, Padre Giacomo
Costa, gesuita, e Don Rossano Sala, salesiano, che hanno lavorato
generosamente con impegno e abnegazione. Hanno lasciato la pelle, nella
preparazione!
Desidero anche ringraziare vivamente i giovani collegati con noi, in
questo momento, e tutti i giovani che in tanti modi hanno fatto sentire
la loro voce. Li ringrazio per aver voluto scommettere che vale la pena
di sentirsi parte della Chiesa o di entrare in dialogo con essa; vale la
pena di avere la Chiesa come madre, come maestra, come casa, come
famiglia, capace, nonostante le debolezze umane e le difficoltà, di
brillare e trasmettere l’intramontabile messaggio di Cristo; vale la
pena di aggrapparsi alla barca della Chiesa che, pur attraverso le
tempeste impietose del mondo, continua ad offrire a tutti rifugio e
ospitalità; vale la pena di metterci in ascolto gli uni degli altri;
vale la pena di nuotare controcorrente e di legarsi ai valori alti: la
famiglia, la fedeltà, l’amore, la fede, il sacrificio, il servizio, la
vita eterna. La nostra responsabilità qui al Sinodo è di non smentirli,
anzi, di dimostrare che hanno ragione a scommettere: davvero vale la
pena, davvero non è tempo perso!
E ringrazio in particolare voi, cari giovani presenti! Il cammino di
preparazione al Sinodo ci ha insegnato che l’universo giovanile è
talmente variegato da non poter essere rappresentato totalmente, ma voi
ne siete certamente un segno importante. La vostra partecipazione ci
riempie di gioia e di speranza.
II Sinodo che stiamo vivendo è un momento di condivisione. Desidero dunque, all’inizio del percorso dell’Assemblea sinodale, invitare tutti a parlare con coraggio e parresia, cioè integrando libertà, verità e carità.
Solo il dialogo può farci crescere. Una critica onesta e trasparente è
costruttiva e aiuta, mentre non lo fanno le chiacchiere inutili, le
dicerie, le illazioni oppure i pregiudizi.
E al coraggio del parlare deve corrispondere l’umiltà dell’ascoltare.
Dicevo ai giovani nella Riunione pre-sinodale: «Se parla quello che non
mi piace, devo ascoltarlo di più, perché ognuno ha il diritto di essere
ascoltato, come ognuno ha il diritto di parlare». Questo ascolto aperto
richiede coraggio nel prendere la parola e nel farsi voce di tanti
giovani del mondo che non sono presenti. È questo ascolto che apre lo
spazio al dialogo. Il Sinodo dev’essere un esercizio di dialogo, anzitutto tra quanti vi partecipano.
E il primo frutto di questo dialogo è che ciascuno si apra alla novità,
a modificare la propria opinione grazie a quanto ha ascoltato dagli
altri. Questo è importante per il Sinodo. Molti di voi hanno già
preparato il loro intervento prima di venire – e vi ringrazio per questo
lavoro –, ma vi invito a sentirvi liberi di considerare quanto avete
preparato come una bozza provvisoria aperta alle eventuali integrazioni e
modifiche che il cammino sinodale potrebbe suggerire a ciascuno.
Sentiamoci liberi di accogliere e comprendere gli altri e quindi di
cambiare le nostre convinzioni e posizioni: è segno di grande maturità
umana e spirituale.
Il Sinodo è un esercizio ecclesiale di discernimento. Franchezza
nel parlare e apertura nell’ascoltare sono fondamentali affinché il
Sinodo sia un processo di discernimento. Il discernimento non è uno slogan pubblicitario, non è una tecnica organizzativa, e neppure una moda di questo pontificato, ma un atteggiamento interiore che si radica in un atto di fede.
Il discernimento è il metodo e al tempo stesso l’obiettivo che ci
proponiamo: esso si fonda sulla convinzione che Dio è all’opera nella
storia del mondo, negli eventi della vita, nelle persone che incontro e
che mi parlano. Per questo siamo chiamati a metterci in ascolto di ciò
che lo Spirito ci suggerisce, con modalità e in direzioni spesso
imprevedibili. Il discernimento ha bisogno di spazi e di tempi. Per
questo dispongo che durante i lavori, in assemblea plenaria e nei
gruppi, ogni 5 interventi si osservi un momento di silenzio – circa tre
minuti – per permettere ad ognuno di prestare attenzione alle risonanze
che le cose ascoltate suscitano nel suo cuore, per andare in profondità e
cogliere ciò che colpisce di più. Questa attenzione all’interiorità è
la chiave per compiere il percorso del riconoscere, interpretare e
scegliere.
Siamo segno di una Chiesa in ascolto e in cammino. L’atteggiamento
di ascolto non può limitarsi alle parole che ci scambieremo nei lavori
sinodali. Il cammino di preparazione a questo momento ha evidenziato una
Chiesa “in debito di ascolto” anche nei confronti dei giovani,
che spesso dalla Chiesa si sentono non compresi nella loro originalità e
quindi non accolti per quello che sono veramente, e talvolta persino
respinti. Questo Sinodo ha l’opportunità, il compito e il dovere di
essere segno della Chiesa che si mette davvero in ascolto, che si lascia
interpellare dalle istanze di coloro che incontra, che non ha sempre
una risposta preconfezionata già pronta. Una Chiesa che non ascolta si
mostra chiusa alla novità, chiusa alle sorprese di Dio, e non potrà
risultare credibile, in particolare per i giovani, che inevitabilmente
si allontaneranno anziché avvicinarsi.
Usciamo da pregiudizi e stereotipi. Un primo passo
nella direzione dell’ascolto è liberare le nostre menti e i nostri cuori
da pregiudizi e stereotipi: quando pensiamo di sapere già chi è l’altro
e che cosa vuole, allora facciamo davvero fatica ad ascoltarlo sul
serio. I rapporti tra le generazioni sono un terreno in cui pregiudizi e
stereotipi attecchiscono con una facilità proverbiale, tanto che spesso
nemmeno ce ne rendiamo conto. I giovani sono tentati di considerare gli
adulti sorpassati; gli adulti sono tentati di ritenere i giovani
inesperti, di sapere come sono e soprattutto come dovrebbero essere e
comportarsi. Tutto questo può costituire un forte ostacolo al dialogo e
all’incontro tra le generazioni. La maggior parte dei presenti non
appartiene alla generazione dei giovani, per cui è chiaro che dobbiamo
fare attenzione soprattutto al rischio di parlare dei giovani a partire
da categorie e schemi mentali ormai superati. Se sapremo evitare questo
pericolo, allora contribuiremo a rendere possibile un’alleanza tra
generazioni. Gli adulti dovrebbero superare la tentazione di
sottovalutare le capacità dei giovani e di giudicarli negativamente.
Avevo letto una volta che la prima menzione di questo fatto risale al
3000 a.C. ed è stata trovata su un vaso di argilla dell’antica
Babilonia, dove c’è scritto che la gioventù è immorale e che i giovani
non sono in grado di salvare la cultura del popolo. È una vecchia
tradizione di noi vecchi! I giovani invece dovrebbero superare la
tentazione di non prestare ascolto agli adulti e di considerare gli
anziani “roba antica, passata e noiosa”, dimenticando che è stolto voler
ricominciare sempre da zero come se la vita iniziasse solo con ciascuno
di loro. In realtà, gli anziani, nonostante la loro fragilità fisica,
rimangono sempre la memoria della nostra umanità, le radici della nostra
società, il “polso” della nostra civiltà. Disprezzarli, scaricarli,
chiuderli in riserve isolate oppure snobbarli è indice di un cedimento
alla mentalità del mondo che sta divorando le nostre case dall’interno.
Trascurare il tesoro di esperienze che ogni generazione eredita e
trasmette all’altra è un atto di autodistruzione.
Occorre quindi, da una parte, superare con decisione la piaga del clericalismo.
Infatti, l’ascolto e l’uscita dagli stereotipi sono anche un potente
antidoto contro il rischio del clericalismo, a cui un’assemblea come
questa è inevitabilmente esposta, al di là delle intenzioni di ciascuno
di noi. Esso nasce da una visione elitaria ed escludente della
vocazione, che interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito
e generoso da offrire; e ciò conduce a ritenere di appartenere a un
gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e
di imparare nulla, o fa finta di ascoltare. Il clericalismo è una perversione ed è radice di tanti mali nella Chiesa: di essi dobbiamo chiedere umilmente perdono e soprattutto creare le condizioni perché non si ripetano.
Occorre però, d’altra parte, curare il virus dell’autosufficienza e
delle affrettate conclusioni di molti giovani. Dice un proverbio
egiziano: “Se nella tua casa non c’è l’anziano, compralo, perché ti
servirà”. Ripudiare e rigettare tutto ciò che è stato trasmesso nei
secoli porta soltanto al pericoloso smarrimento che purtroppo sta
minacciando la nostra umanità; porta allo stato di disillusione che ha
invaso i cuori di intere generazioni. L’accumularsi delle esperienze
umane, lungo la storia, è il tesoro più prezioso e affidabile che le
generazioni ereditano l’una dall’altra. Senza scordare mai la
rivelazione divina, che illumina e dà senso alla storia e alla nostra
esistenza.
Fratelli e sorelle, che il Sinodo risvegli i nostri cuori! Il presente, anche quello della Chiesa, appare carico di fatiche, di problemi, di pesi. Ma la fede ci dice che esso è anche il kairos in
cui il Signore ci viene incontro per amarci e chiamarci alla pienezza
della vita. Il futuro non è una minaccia da temere, ma è il tempo che il
Signore ci promette perché possiamo fare esperienza della comunione con
Lui, con i fratelli e con tutta la creazione. Abbiamo bisogno di
ritrovare le ragioni della nostra speranza e soprattutto di trasmetterle
ai giovani, che di speranza sono assetati; come ben affermava il
Concilio Vaticano II: «Legittimamente si può pensare che il futuro
dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di
trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza»
(Cost. past. Gaudium et spes, 31).
L’incontro tra le generazioni può essere estremamente fecondo in
ordine a generare speranza. Ce lo insegna il profeta Gioele in quella
che – lo ricordavo anche ai giovani della Riunione pre-sinodale –
ritengo essere la profezia dei nostri tempi: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1) e profetizzeranno.
Non c’è bisogno di sofisticate argomentazioni teologiche per mostrare
il nostro dovere di aiutare il mondo contemporaneo a camminare verso il
regno di Dio, senza false speranze e senza vedere soltanto rovine e
guai. Infatti, San Giovanni XXIII, parlando delle persone che valutano i
fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio, affermò:
«Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di
vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si
confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e
arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da
imparare dalla storia, che è maestra di vita» (Discorso per la solenne apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962).
Non lasciarsi dunque tentare dalle “profezie di sventura”, non
spendere energie per «contabilizzare fallimenti e rinfacciare amarezze»,
tenere fisso lo sguardo sul bene che «spesso non fa rumore, non è tema
dei blog né arriva sulle prime pagine», e non spaventarsi
«davanti alle ferite della carne di Cristo, sempre inferte dal peccato e
non di rado dai figli della Chiesa» (cfr Discorso ai Vescovi di recente nomina partecipanti al corso promosso dalle Congregazioni per i Vescovi e per le Chiese Orientali, 13 settembre 2018).
Impegniamoci dunque nel cercare di “frequentare il futuro”, e di far
uscire da questo Sinodo non solo un documento – che generalmente viene
letto da pochi e criticato da molti –, ma soprattutto propositi
pastorali concreti, in grado di realizzare il compito del Sinodo stesso,
ossia quello di far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che
illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri
ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un
futuro ricolmo della gioia del Vangelo. Grazie.
Fonte: Sala Stampa Vaticana