venerdì 22 ottobre 2021

NO VAX? LIBERTA' SENZA CITTADINANZA


 Responsabilità personale

 e collettiva. 

È difficile trovare nella storia del pensiero un sostegno

 alle ragioni portate dai disobbedienti

 

-         di Simone M. Sepe

-          Il Green pass altro non è che uno strumento per 'promuovere' la vaccinazione di massa. Il problema è comprenderne il significato. Si tratta di un semplice incentivo? Oppure di qualcosa di più cogente che approssima l’obbligatorietà? Dipende ovviamente dalla posta in gioco; se il premio è una caramella, o una ciambella come Krispy Kreme qui in America regala a ogni vaccinato per colazione (e per tutto l’anno), siamo nel mondo degli incentivi. Se invece diventa un lasciapassare per lavorare, quella promozione assumerebbe un carattere più coercitivo, soprattutto quando l’alternativa alla vaccinazione è il test obbligatorio periodico, il cui costo (pecuniario e di tempo-opportunità) non è trascurabile. Il problema è dunque comprendere la compatibilità di questo meccanismo con la difesa morale e giuridica che i no-pass antepongono a giustificazione della loro protesta: la loro libertà. Libertà, una parola meravigliosa e al contempo misteriosa. Abbiamo cercato di riesaminare le varie declinazioni di libertà nella storia del pensiero per trovarne una – che fosse soltanto una – a difesa delle ragioni dei 'disobbedienti'. Non ci siamo riusciti. Ma procediamo con ordine.

Nella concezione degli antichi – ogni riferimento a Benjamin Constant è voluto – libertà significa assenza di turbamenti interni. L’individuo vittima delle proprie passioni, privo di autodisciplina, acratico appunto, non è libero. Per i greci la libertà non era separabile dalla razionalità. Ne consegue che l’esercizio della libertà si risolve in un processo rigoroso di deliberazione interna ( phronesis o saggezza pratica) in condizioni ideali. Se, per ipotesi, il piano delle nostre scelte possibili collassasse in un solo punto, potremo ancora dirci liberi purché quel punto rappresentasse l’unica scelta corretta. Per il pensiero antico, dunque, saremmo liberi anche di fronte all’obbligatorietà vaccinale. Fermandoci solo all’estetica dei comportamenti e all’apparato di suggestioni scomposte che i no-pass portano nel dibattito pubblico, ci sentiremmo di dire che la libertà da loro proposta non è quella degli antichi.

La libertà nel senso moderno assume invece un significato più politico, o se si preferisce negativo, spostando l’asse del concetto dalle costrizioni interne dell’individuo a quelle esterne. La libertà è quindi la capacità di scegliere tra un ventaglio di opzioni possibili, senza che forze esterne – come un governo – ne condizionino o addirittura ne coartino la decisione. Per inciso, questa è la libertà da sempre osteggiata da chi considera la società come un qualcosa di organicamente diverso e non riducibile agli individui solamente, come il fascismo appunto. Ma anche i fascisti, di ritorno da Marte, evidentemente sono cambiati. Tuttavia, anche volendo rimanere nel solco del pensiero esclusivamente liberale è difficile, se non impossibile, trovare una rappresentazione della libertà idonea a giustificare il 'gran rifiuto' dei disobbedienti.

Ci sarebbero infatti delle ragioni che sono libertà-dipendenti per restringere la libertà, proprio a difesa della libertà stessa. Non è un paradosso! Questo accade quando si rischia che le nostre scelte non siano adeguatamente informate oppure viziate nella struttura profonda dei processi cognitivi. Vizi e distorsioni che ancora una volta abbiamo visto con i nostri occhi, durante i fatti violenti di Roma del 9 ottobre 2021, quando quell’umanità arrabbiata e sofferente diceva 'gli italiani liberi vanno ad assediare la Cgil'. Così John Stuart Mill, che presume la libertà come condizione naturale, descrive i casi in cui questa presunzione possa essere legittimamente rigettata. Tra questi include la possibilità di restringere la libertà di oggi per proteggere quella di domani. Questa è la logica liberale che accetta l’obbligatorietà della cintura di sicurezza quando guidiamo: protegge la libertà del giorno dopo.

Il filosofo contemporaneo David Schmidtz, influente esponente del liberalismo classico, inquadra la libertà come potere di dire 'no', perché quel 'no' è la base su cui costruire relazioni umane e comunità fondate sul 'sì'. Quel 'no' non significa avere il diritto di espirare particelle di virus verso chi ci sta accanto. Quel 'no' potrebbe invece estendersi alla privacy quale incarnazione della libertà, laddove un governo volesse agire sul nostro corpo, imponendo la vaccinazione obbligatoria. Ma il green pass non è la vaccinazione obbligatoria. E quindi non vìola la privacy.

Ma anche se prendessimo quella che è forse la versione più radicale, non paternalista, di libertà negativa, quella del libertarianismo, si fatica a trovare argomenti a favore dei no-pass. Robert Nozick, sofisticatissimo pensatore contemporaneo e autore di 'Anarchia, Stato e Utopia', dice chiaramente che laddove l’azione individuale generi un rischio su altri, la pretesa della libertà come immunità diventa problematica. Si chiede allora come individui razionali e liberi risolverebbero il conflitto tra libertà e rischio in uno stato di natura, dove le istituzioni sono ancora da definire. Per Nozick semplifichiamo – ci sarebbero due possibilità: 1) vietare le azioni pericolose (il che equivarrebbe a giustificare la legittimità del Green Pass); 2) permettere le azioni pericolose (nel caso specifico, permettere di interagire nella società senza Green Pass), a condizione che gli agenti 'pericolosi' compensino gli altri (vale a dire richiedere ai no-vax e/o no-pass di risarcire in via preventiva la popolazione più responsabile). Ma Nozick con acuto pragmatismo si pone anche il problema di come amministrare il secondo regime, in un mondo in cui i 'pericolosi' (i no-pass) non abbiano le risorse per risarcire le 'vittime' o comunque non sia così semplice farli pagare. Senza compenso, infatti, il costo della libertà degli uni (quello di no-vax e nopass) verrebbe traslato sugli altri (i vaccinati), un’eventualità che Nozick non accetterebbe.

Sul piatto rimarrebbe allora solo la prima possibilità. Evidentemente i no-pass non conoscono Nozick, ma molti di loro intendono il Reddito di cittadinanza come 'meccanismo di risarcimento'; peccato che il pagamento vada nella direzione opposta. Se infine volessimo volare più alti e considerare la struttura metafisica della nostra libertà, i no-pass ancora una volta sono con le spalle al muro: la libertà è infatti la dimensione della nostra responsabilità morale. La dimensione della nostra partecipazione e compassione, come insegna l’illuminismo scozzese. Qualcuno direbbe della nostra coscienza. Più siamo liberi, più dobbiamo essere responsabili verso gli altri. Ma i disobbedienti non sembrano aver compreso questa proporzione: le responsabilità – per loro – sono da socializzare, a differenza dei benefici che invece vorrebbero mantenere privati.

È una brutta vicenda piena di contraddizioni, ignoranza e furbizia. Dove chi ne beneficia sono quei cinici senza virtù all’incetta di voti che sfruttano le contingenze della storia e le debolezze della gente. E giustificano i vizi umani, anche i più bassi, nel nome di un concetto di libertà senza cittadinanza. Fa bene il presidente del Consiglio Draghi a tirar dritto per la strada della responsabilità personale e collettiva, senza tentennamenti. Come un uomo libero farebbe.

*Giurista ed economista, University of Arizona (Usa)

 

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sabato 2 ottobre 2021

CAMMINARE PER RIGENERARSI


L’antropologo francese Le Breton da anni segue le associazioni che recuperano le devianze giovanili impegnando i ragazzi in lunghi periodi di cammino: «Viaggiare a piedi è una terapia»

-  di Daniele  Zappalà

 «Due o tre mesi continui di marcia possono permettere a un adolescente vulnerabile di ricostruirsi, reinventarsi, cambiare il proprio rapporto con il mondo. Marciare è un rimettersi al mondo». Per questo, il noto antropologo francese David Le Breton segue da tempo il lavoro degli educatori e delle associazioni che coinvolgono in lunghi periodi rigeneranti di marcia i giovani con trascorsi di disagio o devianza. Autore di riflessioni sulla marcia tradotte anche in Italia, come Il mondo a piedi. Elogio della marcia (Feltrinelli), o Camminare. Elogio dei sentieri e della lentezza (Edizioni dei cammini), lo studioso è intervenuto al primo convegno di respiro europeo dedicato al fenomeno, intitolato 'Gioventù europee in difficoltà: marciare, progetto educativo di reinserimento' (presso la Société nationale d’horticulture), in presenza di associazioni di vari Paesi pronte a confrontarsi, come l’italiana 'Lunghi cammini', nata recentemente in Veneto.

Quest’approccio di reinserimento è davvero nuovo?

«L’idea trae ispirazione dalla tradizione dell’immersione dei giovani in un ambiente naturale per spingerli ad attingere dalle proprie risorse, soprattutto nel movimento scout, inizialmente in Inghilterra, poi dappertutto in Europa lungo il XX secolo. A partire dagli anni Ottanta, sono nate associazioni in Europa pronte a spaesare volontariamente dei giovani in difficoltà, conducendoli in viaggio in Africa o altri contesti lontani. Dunque, il viaggio come esperienza terapeutica e d’integrazione. Oggi, prende corpo l’idea di reinventare la marcia con gli stessi scopi, sullo sfondo di un contesto nuovo».

Quale?

«I giovani vivono spesso una grande sedentarietà. Pur senza scomparire, il corpo si assenta spesso nella loro esperienza del mondo. Marciare per diverse settimane lungo migliaia di chilometri diventa allora un modo per ritrovare un’esperienza sensoriale, emotiva, fisica del mondo. Un modo per rientrare nel mondo in un’altra maniera, con una diversa prospettiva. Si tratta di giovani che in molti casi, almeno in Francia, vivono nelle banlieue popolari, in versioni impoverite della città, lontane da molte sollecitazioni relazionali. Talora, quartieri dove c’è poco da vedere, sentire, gustare, toccare. Lo stesso si può dire per le emozioni, centrate sulla ripetizione quotidiana delle stesse esperienze, in un registro poco esaltante: uscire, ritrovare gli amici, attendere che il tempo passi. Nella marcia, affrontano esperienze completamente nuove, comprese le dimensioni della bellezza del mondo, della meraviglia, della contemplazione. Talvolta, basta imbattersi nelle more dei rovi selvatici per scoprire nuovi gusti, la prodigalità della natura. Se la marcia sconfina all’estero, pure i gusti di un’altra alimentazione. C’è poi tutta l’esperienza degli incontri con altri camminatori, il condividere un pasto, i legami imprevisti d’amicizia. Questi giovani lasciano così un sistema chiuso di valori per scoprire l’immensità del mondo, accanto a persone di ogni età, ceto, nazione. Un modo anche per comprendere quanto il precedente orizzonte personale fosse ristretto».

Quanto conta chi accompagna?

«Molto, innanzitutto in uno spirito di contenimento. L’accompagnatore fissa dei limiti chiari, richiama le regole, il contesto. Ad esempio, spetta a lui ricordare che l’indomani occorrerà svegliarsi di buon’ora e che dunque non è saggio coricarsi tardi. Lo stesso per gli eccessi d’alcol, che non si addicono alla marcia. O nella gestione dei soldi, per pernottamenti o altro».

È in gioco pure una ricerca d’interiorità?

Certamente, tanto più se si considera che telefonini e simili sono generalmente proibiti. Questi giovani si dedicano alle conversazioni faccia a faccia o al silenzio, un’esperienza quest’ultima che per alcuni era prima rara, data l’abitudine frequente di saturare l’udito con musiche di ogni tipo. La marcia dischiude un’interiorità nutrita anche di silenzi, compresi quelli così densi della natura. A tratti, la convivenza e la condivisione con l’accompagnatore può anche fare a meno di parole. I giovani possono scoprire che l’interiorità non è necessariamente un abisso in cui perdersi. Che si può restare per ore silenziosi e felici. Senza questo contatto nuovo con l’interiorità, non può esservi la metamorfosi e il passaggio iniziatico ricercati in questo tipo di progetti».

Le istituzioni si mostrano oggi più sensibili a quest’approccio?

«Per le associazioni che si sono lanciate in questa sfida non è sempre facile trovare interlocutori in ascolto. A lungo, anzi, le istituzioni politiche si sono mostrate ostili. Come in Francia, dove la repressione è stata maggiormente valorizzata rispetto alla prevenzione e all’accompagnamento. Viviamo in società che inseguono la massima sicurezza e ciò frena talvolta pure l’ardore delle associazioni, spaventate dalla prospettiva di possibili incidenti. A mio avviso, occorrerebbe coltivare una certa diffidenza verso gli eccessi di questa tendenza, che finiscono per divorare tante iniziative educative stimolanti, non solo con i giovani vulnerabili, ma anche a scuola. Tanti educatori temono di valicare i muri del proprio istituto. Il principale ostacolo diventa proprio la questione del rischio e delle assicurazioni».

Eppure, in Europa, sembra crescere la voglia di mettersi in cammino, come mostra il revival di Santiago de Compostela…

«Sì, per ragioni non lontane da quelle colte dalle associazioni per il reinserimento. Marciare a lungo può divenire per tutti una riconquista di sé, soprattutto durante lutti o altre forme di malessere interiore. Aiuta a distanziare le difficoltà, a ritrovare il gusto di vivere e una combattività interiore, rinnovando certe capacità di resistenza. È una fonte di virtù antropologiche. Inoltre, la marcia inizia come una passeggiata, ma sfocia sempre in forme di spiritualità. Diventa una forma di pellegrinaggio. Non necessariamente verso Dio, ma comunque verso esperienze metafisiche. A partire dall’eterna domanda: ma chi sono io, in mezzo all’Universo?».

 

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QUANDO SI ENTRA IN UN CENTRO SCOUT



Quando si entra in un centro scout è bene ricordarsi di chi l'ha ideato, di chi ha scavato le prime fondamenta , di chi ha faticato per porre mattone su mattone, di chi ha piantato gli alberi, ha riparato i tetti e i soffitti; di chi l’ha custodito e reso bello, di chi lo ha mantenuto aperto, accogliente e vivo.
Quando si entra in un centro scout è bene pensare a coloro che gli hanno dato vita, a tutti quelli che l’hanno curato, ed anche a quanti ci sono passati; a tutte le guide e gli scout in uscita, vacanze di branco, campi estivi o invernali, routes, campi di lavoro e di competenza, campi scuola; ai bambini, ai giovani , agli adulti, ai momenti di vita trascorsi nel Centro Scout: è bene ricordare e ringraziare.
E' opportuno trovare occasioni per raccontare aneddoti, la storia del Centro, storie di momenti vissuti insieme.... perché la memoria non si perda.
Un centro scout è più di un centro scout…. E' ambiente di memoria e di progetto ... È un luogo di riparo e di crescita, di gioia e di avventura; è spazio di scoperta e di contemplazione, di incontro e di condivisione; zolla feconda di leale amicizia; è piccolo mondo, che interagisce con il mondo grande, per imparare a vivere insieme. E' uno spazio ove menti, mani e cuore interagiscono per migliorare se stessi e l'ambiente, e per costruire un futuro migliore.
E’ costruzione di pietre che rinvia sempre alle pietre vive, ai cuori di chi le ha abitato e le abita, seppur per poco, e ha scoperto e scopre la propria vita; é come casa abitata in cui sperimentare la visita di Dio nella accoglienza data e ricevuta.
Centro Scout Valcinghiana



venerdì 1 ottobre 2021

ALZATI. SEI UN TESTIMONE!

               


    MESSAGGIO DEL SANTO PADRE                               FRANCESCO

PER LA XXXVI GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ
21 novembre 2021

 


“Alzati! Ti costituisco testimone di quel che hai visto!” (cfr. At 26,16)

Carissimi giovani!

Vorrei ancora una volta prendervi per mano per proseguire insieme nel pellegrinaggio spirituale che ci conduce verso la Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona nel 2023.

L’anno scorso, poco prima che si diffondesse la pandemia, firmavo il messaggio il cui tema era “Giovane, dico a te, alzati!” (cfr Lc 7,14). Nella sua provvidenza, il Signore già ci voleva preparare per la durissima sfida che stavamo per vivere.

Nel mondo intero si è dovuta affrontare la sofferenza per la perdita di tante persone care e per l’isolamento sociale. L’emergenza sanitaria ha impedito anche a voi giovani – per natura proiettati verso l’esterno – di uscire per andare a scuola, all'università, al lavoro, per incontrarvi... Vi siete trovati in situazioni difficili, che non eravate abituati a gestire. Coloro che erano meno preparati e privi di sostegno si sono sentiti disorientati. Sono emersi in molti casi problemi familiari, come pure disoccupazione, depressione, solitudine e dipendenze. Senza parlare dello stress accumulato, delle tensioni ed esplosioni di rabbia, dell’aumento della violenza.

Ma grazie a Dio questo non è l’unico lato della medaglia. Se la prova ci ha mostrato le nostre fragilità, ha fatto emergere anche le nostre virtù, tra cui la predisposizione alla solidarietà. In ogni parte del mondo abbiamo visto molte persone, tra cui tanti giovani, lottare per la vita, seminare speranza, difendere la libertà e la giustizia, essere artefici di pace e costruttori di ponti.

Quando un giovane cade, in un certo senso cade l'umanità. Ma è anche vero che quando un giovane si rialza, è come se si risollevasse il mondo intero. Cari giovani, quale grande potenzialità c’è nelle vostre mani! Quale forza portate nei vostri cuori!

Così oggi, ancora una volta, Dio dice a ciascuno di voi: “Alzati!”. Spero con tutto il cuore che questo messaggio ci aiuti a prepararci a tempi nuovi, a una nuova pagina nella storia dell’umanità. Ma non c’è possibilità di ricominciare senza di voi, cari giovani. Per rialzarsi, il mondo ha bisogno della vostra forza, del vostro entusiasmo, della vostra passione. È in questo senso che insieme a voi vorrei meditare sul brano degli Atti degli Apostoli in cui Gesù dice a Paolo: “Alzati! Ti costituisco testimone di quel che hai visto” (cfr At 26,16).

Paolo testimone davanti al re

Il versetto a cui si ispira il tema della Giornata Mondiale della Gioventù 2021 è tratto dalla testimonianza di Paolo di fronte al re Agrippa, mentre si trova detenuto in prigione. Lui, un tempo nemico e persecutore dei cristiani, adesso è giudicato proprio per la sua fede in Cristo. A distanza di circa venticinque anni, l’Apostolo racconta la sua storia e l’episodio fondamentale del suo incontro con Cristo.

Paolo confessa che nel passato aveva perseguitato i cristiani, finché un giorno, mentre andava a Damasco per arrestarne alcuni, una luce “più splendente del sole” avvolse lui e i suoi compagni di viaggio (cfr At 26,13), ma solo lui udì “una voce”: Gesù gli rivolse la parola e lo chiamò per nome.

“Saulo, Saulo!”

Approfondiamo insieme questo avvenimento. Chiamandolo per nome, il Signore fa capire a Saulo che lo conosce personalmente. È come se gli dicesse: “So chi sei, so che cosa stai tramando, ma, ciò nonostante, mi rivolgo proprio a te”. Lo chiama due volte, in segno di una vocazione speciale e molto importante, come aveva fatto con Mosè (cfr Es 3,4) e con Samuele (cfr 1 Sam 3,10). Cadendo a terra, Saulo riconosce di essere testimone di una manifestazione divina, una rivelazione potente, che lo sconvolge, ma non lo annienta, anzi, lo interpella per nome.

In effetti, solo un incontro personale, non anonimo con Cristo cambia la vita. Gesù mostra di conoscere bene Saulo, di “conoscerlo dentro”. Anche se Saulo è un persecutore, anche se nel suo cuore c’è l’odio per i cristiani, Gesù sa che questo è dovuto all’ignoranza e vuole dimostrare in lui la sua misericordia. Sarà proprio questa grazia, questo amore non meritato e incondizionato, la luce che trasformerà radicalmente la vita di Saulo.

“Chi sei, Signore?”

Di fronte a questa presenza misteriosa che lo chiama per nome, Saulo chiede: «Chi sei, o Signore?» (At 26,15). Questa domanda è estremamente importante e tutti, nella vita, prima o poi la dobbiamo fare. Non basta aver sentito parlare di Cristo da altri, è necessario parlare con Lui personalmente. Questo, in fondo, è pregare. È un parlare direttamente a Gesù, anche se magari abbiamo il cuore ancora in disordine, la mente piena di dubbi o addirittura di disprezzo verso Cristo e i cristiani. Mi auguro che ogni giovane, dal profondo del suo cuore, arrivi a porre questa domanda: “Chi sei, o Signore?”.

Non possiamo dare per scontato che tutti conoscano Gesù, anche nell’era di internet. La domanda che molte persone rivolgono a Gesù e alla Chiesa è proprio questa: “Chi sei?”. In tutto il racconto della vocazione di San Paolo, è l’unica volta in cui lui parla. E alla sua domanda, il Signore risponde prontamente: «Io sono Gesù, che tu perseguiti» (ibid.).

“Io sono Gesù, che tu perseguiti!”

Attraverso questa risposta, il Signore Gesù rivela a Saulo un mistero grande: che Lui si identifica con la Chiesa, con i cristiani. Fino ad allora, Saulo non aveva visto nulla di Cristo se non i fedeli che aveva rinchiuso in prigione (cfr At 26,10), per la cui condanna a morte egli stesso aveva votato (ibid.). E aveva visto come i cristiani rispondevano al male con il bene, all’odio con l’amore, accettando le ingiustizie, le violenze, le calunnie e le persecuzioni sofferte per il nome di Cristo. Dunque, a ben vedere, Saulo in qualche modo – senza saperlo – aveva incontrato Cristo: lo aveva incontrato nei cristiani!

Quante volte abbiamo sentito dire: “Gesù sì, la Chiesa no”, come se l’uno potesse essere alternativo all’altra. Non si può conoscere Gesù se non si conosce la Chiesa. Non si può conoscere Gesù se non attraverso i fratelli e le sorelle della sua comunità. Non ci si può dire pienamente cristiani se non si vive la dimensione ecclesiale della fede.

“È duro per te rivoltarti contro il pungolo”

Queste sono le parole che il Signore rivolge a Saulo dopo che è caduto a terra. Ma è come se già da tempo gli stesse parlando in modo misterioso, cercando di attirarlo a sé, e Saulo stesse resistendo. Quello stesso dolce “rimprovero”, nostro Signore lo rivolge a ogni giovane che si allontana: “Fino a quando fuggirai da me? Perché non senti che ti sto chiamando? Sto aspettando il tuo ritorno”. Come il profeta Geremia, noi a volte diciamo: “Non penserò più a lui” (Ger 20,9). Ma nel cuore di ognuno c'è come un fuoco ardente: anche se ci sforziamo di contenerlo, non ci riusciamo, perché è più forte di noi.

Il Signore sceglie uno che addirittura lo perseguita, completamente ostile a Lui e ai suoi. Ma non esiste persona che per Dio sia irrecuperabile. Attraverso l’incontro personale con Lui è sempre possibile ricominciare. Nessun giovane è fuori della portata della grazia e della misericordia di Dio. Per nessuno si può dire: è troppo lontano… è troppo tardi… Quanti giovani hanno la passione di opporsi e andare controcorrente, ma portano nascosto nel cuore il bisogno di impegnarsi, di amare con tutte le loro forze, di identificarsi con una missione! Gesù, nel giovane Saulo, vede esattamente questo.

Riconoscere la propria cecità

Possiamo immaginare che, prima dell’incontro con Cristo, Saulo fosse in un certo senso “pieno di sé”, ritenendosi “grande” per la sua integrità morale, per il suo zelo, per le sue origini, per la sua cultura. Certamente era convinto di essere nel giusto. Ma, quando il Signore gli si rivela, viene “atterrato” e si ritrova cieco. Improvvisamente scopre di non essere capace di vedere, non solo fisicamente ma anche spiritualmente. Le sue certezze vacillano. Nel suo animo avverte che ciò che lo animava con tanta passione – lo zelo di eliminare i cristiani – era completamente sbagliato. Si rende conto di non essere il detentore assoluto della verità, anzi di esserne ben lontano. E, insieme alle sue certezze, cade anche la sua “grandezza”. Improvvisamente si scopre smarrito, fragile, “piccolo”.

Questa umiltà – coscienza della propria limitatezza – è fondamentale! Chi pensa di sapere tutto di sé, degli altri e persino delle verità religiose, farà fatica a incontrare Cristo. Saulo, diventato cieco, ha perso i suoi punti di riferimento. Rimasto solo, nel buio, le uniche cose chiare per lui sono la luce che ha visto e la voce che ha sentito. Che paradosso: proprio quando uno riconosce di essere cieco, comincia a vedere!

Dopo la folgorazione sulla via di Damasco, Saulo preferirà essere chiamato Paolo, che significa “piccolo”. Non si tratta di un nickname o di un “nome d’arte” – oggi tanto in uso anche tra la gente comune: l’incontro con Cristo lo ha fatto sentire veramente così, abbattendo il muro che gli impediva di conoscersi in verità. Egli afferma di sé stesso: «Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (1 Cor 15,9).

Santa Teresa di Lisieux, come altri santi, amava ripetere che l’umiltà è la verità. Oggigiorno tante “storie” condiscono le nostre giornate, specialmente sulle reti sociali, spesso costruite ad arte con tanto di set, telecamere, sfondi vari. Si cercano sempre di più le luci della ribalta, sapientemente orientate, per poter mostrare agli “amici” e followers un’immagine di sé che a volte non rispecchia la propria verità. Cristo, luce meridiana, viene a illuminarci e a restituirci la nostra autenticità, liberandoci da ogni maschera. Ci mostra con nitidezza quello che siamo, perché ci ama così come siamo.

Cambiare prospettiva

La conversione di Paolo non è un tornare indietro, ma l’aprirsi a una prospettiva totalmente nuova. Infatti, lui prosegue il cammino verso Damasco, ma non è più quello di prima, è una persona  diversa (cfr At 22,10). Ci si può convertire e rinnovare nella vita ordinaria, facendo le cose che siamo soliti fare, ma con il cuore trasformato e motivazioni differenti. In questo caso, Gesù chiede espressamente a Paolo di andare fino a Damasco, dove era diretto. Paolo obbedisce, ma adesso la finalità e la prospettiva del suo viaggio sono radicalmente cambiate. D’ora in poi, vedrà la realtà con occhi nuovi. Prima erano quelli del persecutore giustiziere, d’ora in poi saranno quelli del discepolo testimone. A Damasco, Anania lo battezza e lo introduce nella comunità cristiana. Nel silenzio e nella preghiera, Paolo approfondirà la propria esperienza e la nuova identità donatagli dal Signore Gesù.

Non disperdere la forza e la passione dei giovani

L’atteggiamento di Paolo prima dell’incontro con Gesù risorto non ci è tanto estraneo. Quanta forza e quanta passione vivono anche nei vostri cuori, cari giovani! Ma se l’oscurità intorno a voi e dentro di voi vi impedisce di vedere correttamente, rischiate di perdervi in battaglie senza senso, perfino di diventare violenti. E purtroppo le prime vittime sarete voi stessi e coloro che vi sono più vicini. C’è anche il pericolo di lottare per cause che all’origine difendono valori giusti, ma che, portate all’esasperazione, diventano ideologie distruttive. Quanti giovani oggi, forse spinti dalle proprie convinzioni politiche o religiose, finiscono per diventare strumenti di violenza e distruzione nella vita di molti! Alcuni, nativi digitali, trovano nell’ambiente virtuale e nelle reti sociali il nuovo campo di battaglia, ricorrendo senza scrupoli all’arma delle fake news per spargere veleni e demolire i loro avversari.

Quando il Signore irrompe nella vita di Paolo, non annulla la sua personalità, non cancella il suo zelo e la sua passione, ma mette a frutto queste sue doti per fare di lui il grande evangelizzatore fino ai confini della terra.

Apostolo delle genti

Paolo, in seguito, sarà conosciuto come “l’apostolo delle genti”: lui, che era stato un fariseo scrupoloso osservante della Legge! Ecco un altro paradosso: il Signore ripone la sua fiducia proprio in colui che lo perseguitava. Come Paolo, ognuno di noi può sentire nel profondo del cuore questa voce che gli dice: “Mi fido di te. Conosco la tua storia e la prendo nelle mie mani, insieme a te. Anche se spesso sei stato contro di me, ti scelgo e ti rendo mio testimone”. La logica divina può fare del peggior persecutore un grande testimone.

Il discepolo di Cristo è chiamato ad essere «luce del mondo» (Mt 5,14). Paolo deve testimoniare quello che ha visto, ma adesso è cieco. Siamo di nuovo al paradosso! Ma proprio attraverso questa sua personale esperienza Paolo potrà immedesimarsi in coloro ai quali il Signore lo manda. Infatti, è costituito testimone «per aprire i loro occhi, perché si convertano dalle tenebre alla luce» (At 26,18).

“Alzati e testimonia!”

Nell’abbracciare la vita nuova che ci è data nel battesimo, riceviamo anche una missione dal Signore: “Mi sarai testimone!”. È una missione a cui dedicarsi, che fa cambiare vita.

Oggi l’invito di Cristo a Paolo è rivolto a ognuno e ognuna di voi giovani: Alzati! Non puoi rimanere a terra a “piangerti addosso”, c’è una missione che ti attende! Anche tu puoi essere testimone delle opere che Gesù ha iniziato a compiere in te. Perciò, in nome di Cristo, ti dico:

- Alzati e testimonia la tua esperienza di cieco che ha incontrato la luce, ha visto il bene e la bellezza di Dio in sé stesso, negli altri e nella comunione della Chiesa che vince ogni solitudine.

- Alzati e testimonia l’amore e il rispetto che è possibile instaurare nelle relazioni umane, nella vita familiare, nel dialogo tra genitori e figli, tra giovani e anziani.

- Alzati e difendi la giustizia sociale, la verità e la rettitudine, i diritti umani, i perseguitati, i poveri e i vulnerabili, coloro che non hanno voce nella società, gli immigrati.

- Alzati e testimonia il nuovo sguardo che ti fa vedere il creato con occhi pieni di meraviglia, ti fa riconoscere la Terra come la nostra casa comune e ti dà il coraggio di difendere l’ecologia integrale.

- Alzati e testimonia che le esistenze fallite possono essere ricostruite, che le persone già morte nello spirito possono risorgere, che le persone schiave possono ritornare libere, che i cuori oppressi dalla tristezza possono ritrovare la speranza.

- Alzati e testimonia con gioia che Cristo vive! Diffondi il suo messaggio di amore e salvezza tra i tuoi coetanei, a scuola, all’università, nel lavoro, nel mondo digitale, ovunque.

Il Signore, la Chiesa, il Papa, si fidano di voi e vi costituiscono testimoni nei confronti di tanti altri giovani che incontrate sulle “vie di Damasco” del nostro tempo. Non dimenticate: «Se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni. Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 120).

Alzatevi e celebrate la GMG nelle Chiese particolari!

Rinnovo a tutti voi, giovani del mondo, l’invito a prendere parte a questo pellegrinaggio spirituale che ci porterà a celebrare la Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona nel 2023. Il prossimo appuntamento, però, è nelle vostre Chiese particolari, nelle diverse diocesi ed eparchie del mondo, dove, nella solennità di Cristo Re si celebrerà – a livello locale – la Giornata Mondiale della Gioventù 2021.

Spero che tutti noi possiamo vivere queste tappe come veri pellegrini e non come “turisti della fede”! Apriamoci alle sorprese di Dio, che vuole far risplendere la sua luce sul nostro cammino. Apriamoci ad ascoltare la sua voce, anche attraverso i nostri fratelli e le nostre sorelle. Così ci aiuteremo gli uni gli altri a rialzarci insieme, e in questo difficile momento storico diventeremo profeti di tempi nuovi, pieni di speranza! La Beata Vergine Maria interceda per noi.

 

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