L’antropologo francese Le Breton da anni segue le associazioni che recuperano le devianze giovanili impegnando i ragazzi in lunghi periodi di cammino: «Viaggiare a piedi è una terapia»
- di Daniele Zappalà
Quest’approccio
di reinserimento è davvero nuovo?
«L’idea
trae ispirazione dalla tradizione dell’immersione dei giovani in un ambiente
naturale per spingerli ad attingere dalle proprie risorse, soprattutto nel
movimento scout, inizialmente in Inghilterra, poi dappertutto in Europa lungo
il XX secolo. A partire dagli anni Ottanta, sono nate associazioni in Europa pronte
a spaesare volontariamente dei giovani in difficoltà, conducendoli in viaggio
in Africa o altri contesti lontani. Dunque, il viaggio come esperienza
terapeutica e d’integrazione. Oggi, prende corpo l’idea di reinventare la
marcia con gli stessi scopi, sullo sfondo di un contesto nuovo».
Quale?
«I giovani vivono spesso una grande sedentarietà. Pur senza scomparire, il
corpo si assenta spesso nella loro esperienza del mondo. Marciare per diverse
settimane lungo migliaia di chilometri diventa allora un modo per ritrovare
un’esperienza sensoriale, emotiva, fisica del mondo. Un modo per rientrare nel
mondo in un’altra maniera, con una diversa prospettiva. Si tratta di giovani
che in molti casi, almeno in Francia, vivono nelle banlieue popolari, in versioni
impoverite della città, lontane da molte sollecitazioni relazionali. Talora,
quartieri dove c’è poco da vedere, sentire, gustare, toccare. Lo stesso si può
dire per le emozioni, centrate sulla ripetizione quotidiana delle stesse
esperienze, in un registro poco esaltante: uscire, ritrovare gli amici,
attendere che il tempo passi. Nella marcia, affrontano esperienze completamente
nuove, comprese le dimensioni della bellezza del mondo, della meraviglia, della
contemplazione. Talvolta, basta imbattersi nelle more dei rovi selvatici per
scoprire nuovi gusti, la prodigalità della natura. Se la marcia sconfina
all’estero, pure i gusti di un’altra alimentazione. C’è poi tutta l’esperienza
degli incontri con altri camminatori, il condividere un pasto, i legami imprevisti
d’amicizia. Questi giovani lasciano così un sistema chiuso di valori per
scoprire l’immensità del mondo, accanto a persone di ogni età, ceto, nazione.
Un modo anche per comprendere quanto il precedente orizzonte personale fosse
ristretto».
Quanto conta chi accompagna?
«Molto, innanzitutto in uno spirito di contenimento. L’accompagnatore fissa dei limiti chiari, richiama le regole, il contesto. Ad esempio, spetta a lui ricordare che l’indomani occorrerà svegliarsi di buon’ora e che dunque non è saggio coricarsi tardi. Lo stesso per gli eccessi d’alcol, che non si addicono alla marcia. O nella gestione dei soldi, per pernottamenti o altro».
È in gioco pure una ricerca d’interiorità?
Certamente,
tanto più se si considera che telefonini e simili sono generalmente proibiti.
Questi giovani si dedicano alle conversazioni faccia a faccia o al silenzio,
un’esperienza quest’ultima che per alcuni era prima rara, data l’abitudine
frequente di saturare l’udito con musiche di ogni tipo. La marcia dischiude
un’interiorità nutrita anche di silenzi, compresi quelli così densi della
natura. A tratti, la convivenza e la condivisione con l’accompagnatore può
anche fare a meno di parole. I giovani possono scoprire che l’interiorità non è
necessariamente un abisso in cui perdersi. Che si può restare per ore
silenziosi e felici. Senza questo contatto nuovo con l’interiorità, non può
esservi la metamorfosi e il passaggio iniziatico ricercati in questo tipo di
progetti».
Le istituzioni si mostrano oggi più sensibili a quest’approccio?
«Per
le associazioni che si sono lanciate in questa sfida non è sempre facile
trovare interlocutori in ascolto. A lungo, anzi, le istituzioni politiche si
sono mostrate ostili. Come in Francia, dove la repressione è stata maggiormente
valorizzata rispetto alla prevenzione e all’accompagnamento. Viviamo in società
che inseguono la massima sicurezza e ciò frena talvolta pure l’ardore delle
associazioni, spaventate dalla prospettiva di possibili incidenti. A mio
avviso, occorrerebbe coltivare una certa diffidenza verso gli eccessi di questa
tendenza, che finiscono per divorare tante iniziative educative stimolanti, non
solo con i giovani vulnerabili, ma anche a scuola. Tanti educatori temono di
valicare i muri del proprio istituto. Il principale ostacolo diventa proprio la
questione del rischio e delle assicurazioni».
Eppure, in Europa, sembra crescere la voglia di mettersi in cammino, come
mostra il revival di Santiago de Compostela…
«Sì,
per ragioni non lontane da quelle colte dalle associazioni per il
reinserimento. Marciare a lungo può divenire per tutti una riconquista di sé,
soprattutto durante lutti o altre forme di malessere interiore. Aiuta a
distanziare le difficoltà, a ritrovare il gusto di vivere e una combattività
interiore, rinnovando certe capacità di resistenza. È una fonte di virtù
antropologiche. Inoltre, la marcia inizia come una passeggiata, ma sfocia
sempre in forme di spiritualità. Diventa una forma di pellegrinaggio. Non
necessariamente verso Dio, ma comunque verso esperienze metafisiche. A partire
dall’eterna domanda: ma chi sono io, in mezzo all’Universo?».
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