di Maria Laura Conte
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Le
parole sono numeri. Non suona poetico, ma è così: possiamo giocare con le parole come con
le cifre, ci
servono a valutare situazioni, a misurare rischi,
a calcolare cause ed effetti, pesi e contrappesi.
Ricorriamo alle parole-numeri per de-cifrare le nostre
emozioni o quelle degli altri, per mettere ordine in testa, per tirare le somme di un discorso,
o verificare la differenza tra quello che esce dalla nostra
bocca e quello che invece abbiamo veramente in cuore, per tenere il conto dei non detti e far pagare il
dovuto.
E non sarebbe poi un problema, anzi, salvo quando - spinti alla deriva - ci
trasformiamo in ragionieri nell’incontro-scontro con le parole degli altri: “Ma
tu avevi detto, ma io avevo capito, tu hai frainteso, io intendevo…”. Pura ragioneria
lessicale, no? Messaggi che montano a neve il disagio.
Nel mondo distopico delle chat di gruppo su whatsapp, l’esperienza dell’incomprensione
verbale è quotidiana, quasi da manuale: richieste di precisazioni, qui pro quo,
scambi di sillabe che generano litigi con l’esito di abbandoni e uscite dal
gruppo che alle volte sfiorano il clamoroso. Quando arriva il messaggio “Tizio
ha abbandonato”, è la resa: la ragioneria linguistica ha vinto sulle relazioni
personali.
Il caso delle chat dei social media è autoevidente e si spiega in parte
perché le
parole viaggiano senza corpi sulle piattaforme digitali, disincarnate, così è
più facile che la relazione personale resti sullo sfondo fino a scomparire. Il
volto dell’altro si sgrana.
Ma accade
anche “on life”, non solo online: se non cedono il passo a una forma di cura
per l’altro/altra a cui si rivolgono, se non si abbandonano a una certa dose di
fiducia a priori per l’interlocutore, le parole diventano equazioni
irrisolvibili.
Adesso ci sediamo e ne parliamo finché ce n'è bisogno
Scene
da un matrimonio …..
Cioè lasciata
sola la parola non sempre diventa “alata”, come la voleva Omero, cioè in grado
di raggiungere il cuore del destinatario, ma si muove nell’aria come quegli
uccelli che, convinti verso la loro meta, ingannati dal riflesso, a volte
finiscono per sbattere contro il vetro delle finestre e precipitano.
Quando la stoffa della stima (dell’amicizia, della fiducia, dell’amore) si
consuma, quando
la relazione interpersonale si corrompe, lo scambio diventa come la prima nota
di un amministratore: si incolonnano le responsabilità, si attribuiscono le
colpe, si sommano le attese non soddisfatte, si denunciano promesse non
mantenute: “ti avevo detto così, no tu avevi detto colà, speravo che tu, ma invece
io…”. Non ci si capisce, e si precipita in un esercizio sterile, mentre la
distanza tra quello che si vorrebbe dire e quel che viene inteso aumenta e
corrompe quel che resta.
Accade in famiglia, in politica, al lavoro, nel tempo libero. Dovunque ci
incontriamo e da sempre. Tutti gli attributi della parola, il
potere di eliminare la sofferenza che le riconosceva Gorgia, di salvare
la res publica come predicava Cicerone, di curare lo spirito,
come sosteneva Seneca, perfino di evitare la guerra come auspicava Canetti,
ebbene tutti questi poteri diventano zero, sfumano, quando non ci sono uomini e
donne che scommettono sulla possibilità di concedere prima fiducia. Di credere
che ci sia comunque un bene in vista, qualcosa di positivo. Che non ci debba
per forza essere in cantiere una fregatura, un dispetto, un attacco.
Si tratta di provare. E di lasciarsi sorprendere.
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