La ‘ndrangheta, i ragazzi e il loro futuro.
Come restituire ai figli dei boss una vita libera e armoniosa?
Intervista al Presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella.
Intervista a cura di Vincenzo Sanfilippo
Roberto Di Bella è il Presidente del Tribunale per i minori di Reggio Calabria. Ha adottato, in diverse circostanze, misure di sospensione della responsabilità genitoriale per allontanare i figli dai boss della ‘ndrangheta. Vive, da allora, sotto scorta e il suo operato apre un forte dibattito.
Ci sono “ponti” che legano un’istanza etica come quella della nonviolenza e l’operare di un magistrato che lavora con minorenni, ponendosi il problema della loro libertà. Le mafie sono violente anche perché, nel plasmare le personalità dei minori, annullano per loro la possibilità di una vita libera e armoniosa. L’essersi imbattuto con questo dato, lo ha condotto alle pratiche di allontanamento di alcuni minori dalle famiglie mafiose...
Io svolgo il ruolo di giudice minorile dal 1993. Ho lavorato quasi ininterrottamente presso il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria. Questa lunga esperienza mi ha consentito un’osservazione privilegiata. Dal 1993 abbiamo trattato più di 100 procedimenti per reati di criminalità organizzata, più di 50 per omicidio o tentato omicidio, reati commessi da minorenni appartenenti alle famiglie di ‘ndrangheta che adesso, da adulti, si trovano sottoposti al regime del 41 bis, o sono latitanti, o sono stati uccisi nel corso delle faide locali. Abbiamo giudicato minori coinvolti in sequestri di persona, che hanno trattato partite di droga o esercitato il racket o sono stati coinvolti nelle faide; in un caso abbiamo giudicato un minore autore di sei omicidi. Oggi ci troviamo a giudicare i figli di coloro che erano processati negli anni Novanta, tutti appartenenti alle stesse famiglie: stessi cognomi, stessi reati. La cultura di ‘ndrangheta si eredita dalle famiglie. Le famiglie di ‘ndrangheta mantengono il potere con l’indottrinamento malavitoso sistematico dei figli minori. Da qui l’esigenza di modificare l’orientamento giurisprudenziale, per censurare il modello educativo mafioso che mette a repentaglio il corretto sviluppo psicofisico dei minori. Dal 2012 stiamo adottando procedimenti civili di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale e, nei casi più gravi, l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare. Procedimenti che vengono adottati “caso per caso”, mai in via preventiva: non si allontana il minore perché la famiglia è mafiosa. Queste misure vogliono assicurare adeguate tutele per una regolare crescita psico-fisica e nel contempo offrire chance di orizzonti culturali e affettivi diversi da quelli del contesto di provenienza.
In sostanza, attraverso l’ausilio di operatori sociali e volontari come quelli di Libera, cerchiamo di far vedere a questi ragazzi che esiste un mondo diverso in cui la violenza e l’omicidio non sono lo strumento ordinario di risoluzione dei conflitti, dove vi è parità di diritti tra uomini e donne, dove le scelte, anche quelle più intime, come i matrimoni, non devono essere imposti dalle famiglie per suggellare sodalizi malavitosi, ma dai dettami dei sentimenti. Cerchiamo di far capire che il carcere non è una medaglia da appuntare sul petto e da esibire ai capi, ma un luogo da evitare a tutti i costi, un cimitero vivente. Spesso la possibilità di scegliere alternative alla ‘ndrangheta non si contempla, perché non si sa che esiste un’alternativa. Pensiamo a un ragazzo proveniente da un piccolo paese della Calabria, nella cui famiglia ci sono soggetti malavitosi, dove il nonno è stato ucciso, il padre è in carcere, i fratelli sono latitanti… In casi come questo la cultura di ‘ndrangheta non è percepita come disvalore ed è intrinseca alla cultura familiare.
Quando si parla di prevenzione si fa riferimento alle strutture di intelligence, dimenticando l’importanza della rete sociale. Nella faida di San Luca, sfociata nella strage di Duisburg, alcune famiglie non mandarono più i figli a scuola per paura di ritorsioni e queste vistose assenze non furono segnalate dagli istituti scolastici.
È vero, le famiglie contrapposte non mandarono i figli a scuola per un lungo periodo di tempo per il timore di ritorsioni. Lo abbiamo saputo, nel corso del processo alcuni anni dopo. Noi interveniamo su situazioni che sono già patologiche. La prevenzione primaria spetta alla scuola e le agenzie alternative alla famiglia. Se nel mezzogiorno d’Italia esiste una cultura diffusa del malaffare, se oggi ci sono le stesse organizzazioni criminali da quasi un secolo… tutto ciò vuol dire che la scuola ha fallito. La scuola è il primo momento di contatto del minore con la società e primo momento di assunzione di responsabilità del bambino: nella scuola ci si confronta con la realtà esterna alla famiglia. A scuola vanno tutti: il figlio del poliziotto e il figlio del boss. La nostra Costituzione o la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, del 1989, affermano che la scuola ha compiti precisi, come quello di educare il fanciullo al rispetto dei diritti fondamentali di libertà dell’individuo. L’educazione scolastica deve tendere a far diventare il fanciullo un membro utile della società e a sviluppare il suo senso di responsabilità. Se questo non accade vuol dire che anche la scuola ha delle responsabilità. Anche le politiche sociali sui territori sono inadeguate. Qui a Reggio, su 98 comuni la metà non ha servizio sociale. Fino a qualche tempo fa non esisteva nessun centro di educazione culturale; di recente Save the Children ha istituito un “Punto luce”. Bisogna recuperare culturalmente questi territori di frontiera. La sconfitta della povertà educativa dovrebbe diventare una priorità di tutti gli amministratori pubblici. Intervenendo sul versante culturale, si prosciuga il bacino su cui si riproduce il modello mafioso. .....
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