domenica 31 dicembre 2017

PAPA FRANCESCO A CHIUSURA DELL'ANNO: GRATITUDINE E RESPONSABILITA'

" ..... In questa atmosfera creata dallo Spirito Santo, noi eleviamo a Dio il rendimento di grazie per l’anno che volge al termine, riconoscendo che tutto il bene è dono suo.

Anche questo tempo dell’anno 2017, che Dio ci aveva donato integro e sano, noi umani l’abbiamo in tanti modi sciupato e ferito con opere di morte, con menzogne e ingiustizie. Le guerre sono il segno flagrante di questo orgoglio recidivo e assurdo. Ma lo sono anche tutte le piccole e grandi offese alla vita, alla verità, alla fraternità, che causano molteplici forme di degrado umano, sociale e ambientale. Di tutto vogliamo e dobbiamo assumerci, davanti a Dio, ai fratelli e al creato, la nostra responsabilità.

Ma questa sera prevale la grazia di Gesù e il suo riflesso in Maria. E prevale perciò la gratitudine, che, come Vescovo di Roma, sento nell’animo pensando alla gente che vive con cuore aperto in questa città.

Provo un senso di simpatia e di gratitudine per tutte quelle persone che ogni giorno contribuiscono con piccoli ma preziosi gesti concreti al bene di Roma: cercano di compiere al meglio il loro dovere, si muovono nel traffico con criterio e prudenza, rispettano i luoghi pubblici e segnalano le cose che non vanno, stanno attenti alle persone anziane o in difficoltà, e così via. Questi e mille altri comportamenti esprimono concretamente l’amore per la città. Senza discorsi, senza pubblicità, ma con uno stile di educazione civica praticata nel quotidiano. E così cooperano silenziosamente al bene comune.

Ugualmente sento in me una grande stima per i genitori, gli insegnanti e tutti gli educatori che, con questo medesimo stile, cercano di formare i bambini e i ragazzi al senso civico, a un’etica della responsabilità, educandoli a sentirsi parte, a prendersi cura, a interessarsi della realtà che li circonda.... ".
Papa Francesco

sabato 30 dicembre 2017

TI AUGURO TEMPO ... BUONO

NON TI AUGURO UN DONO QUALSIASI,

ti auguro soltanto quello che i più non hanno.
Ti auguro tempo, per divertirti e per ridere;
se lo impiegherai bene potrai ricavarne qualcosa.
Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare,
non solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri.
Ti auguro tempo, non per affrettarti a correre,
ma tempo per essere contento.
Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo,
ti auguro tempo perché te ne resti:
tempo per stupirti e tempo per fidarti e non soltanto per guadarlo sull'orologio.
Ti auguro tempo per guardare le stelle
e tempo per crescere, per maturare.
Ti auguro tempo per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.
Ti auguro tempo per trovare te stesso,
per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono.
Ti auguro tempo anche per perdonare.
Ti auguro di avere tempo, tempo per la vita.

1° gennaio 2018 - GIORNATA MONDIALE DELLA PACE - Messaggio di Papa Francesco


MESSAGGIO 
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO

PER LA CELEBRAZIONE DELLA 
LI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2018

Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace



1. Augurio di pace
Pace a tutte le persone e a tutte le nazioni della terra! La pace, che gli angeli annunciano ai pastori nella notte di Natale,[1] è un’aspirazione profonda di tutte le persone e di tutti i popoli, soprattutto di quanti più duramente ne patiscono la mancanza. Tra questi, che porto nei miei pensieri e nella mia preghiera, voglio ancora una volta ricordare gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. Questi ultimi, come affermò il mio amato predecessore Benedetto XVI, «sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace».[2] Per trovarlo, molti di loro sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte dei casi è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta.
Con spirito di misericordia, abbracciamo tutti coloro che fuggono dalla guerra e dalla fame o che sono costretti a lasciare le loro terre a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale.
Siamo consapevoli che aprire i nostri cuori alla sofferenza altrui non basta. Ci sarà molto da fare prima che i nostri fratelli e le nostre sorelle possano tornare a vivere in pace in una casa sicura. Accogliere l’altro richiede un impegno concreto, una catena di aiuti e di benevolenza, un’attenzione vigilante e comprensiva, la gestione responsabile di nuove situazioni complesse che, a volte, si aggiungono ad altri e numerosi problemi già esistenti, nonché delle risorse che sono sempre limitate. Praticando la virtù della prudenza, i governanti sapranno accogliere, promuovere, proteggere e integrare, stabilendo misure pratiche, «nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, [per] permettere quell’inserimento».[3] Essi hanno una precisa responsabilità verso le proprie comunità, delle quali devono assicurare i giusti diritti e lo sviluppo armonico, per non essere come il costruttore stolto che fece male i calcoli e non riuscì a completare la torre che aveva cominciato a edificare.[4]
2. Perché così tanti rifugiati e migranti?
In vista del Grande Giubileo per i 2000 anni dall’annuncio di pace degli angeli a Betlemme, San Giovanni Paolo II annoverò il crescente numero di profughi tra le conseguenze di «una interminabile e orrenda sequela di guerre, di conflitti, di genocidi, di “pulizie etniche”»,[5] che avevano segnato il XX secolo. Quello nuovo non ha finora registrato una vera svolta: i conflitti armati e le altre forme di violenza organizzata continuano a provocare spostamenti di popolazione all’interno dei confini nazionali e oltre.
Ma le persone migrano anche per altre ragioni, prima fra tutte il «desiderio di una vita migliore, unito molte volte alla ricerca di lasciarsi alle spalle la “disperazione” di un futuro impossibile da costruire».[6] Si parte per ricongiungersi alla propria famiglia, per trovare opportunità di lavoro o di istruzione: chi non può godere di questi diritti, non vive in pace. Inoltre, come ho sottolineato nell’Enciclica Laudato si’, «è tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale».[7] ......

LA VECCHIAIA DEL MONDO E L'ETERNA GIOVINEZZA DI DIO


VANGELO DELLA DOMENICA
Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
 Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. [...]
   
    Maria e Giuseppe portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore. Una giovanissima coppia col suo primo bambino arriva portando la povera offerta dei poveri, due tortore, e la più preziosa offerta del mondo: un bambino. Non fanno nemmeno in tempo a entrare che subito le braccia di un uomo e di una donna si contendono il bambino. Sulle braccia dei due anziani, riempito di carezze e di sorrisi, passa dall'uno all'altro il futuro del mondo: la vecchiaia del mondo che accoglie fra le sue braccia l'eterna giovinezza di Dio.
       Il piccolo bambino è accolto non dagli uomini delle istituzioni, ma da un anziano e un'anziana senza ruolo ufficiale, però due innamorati di Dio che hanno occhi velati dalla vecchiaia ma ancora accesi dal desiderio. Perché Gesù non appartiene all'istituzione, ma all'umanità. L'incarnazione è Dio che tracima dovunque nelle creature, nella vita che finisce e in quella che fiorisce.
      «È nostro, di tutti gli uomini e di tutte le donne. Appartiene agli assetati, a quelli che non smettono di cercare e sognare mai, come Simeone; a quelli che sanno vedere oltre, come la profetessa Anna; a quelli capaci di incantarsi davanti a un neonato, perché sentono Dio come futuro» (M. Marcolini). Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia.
      Sono parole che lo Spirito ha conservato nella Bibbia perché io, noi, le conservassimo nel cuore: anche tu, come Simeone, non morirai senza aver visto il Signore. È speranza. È parola di Dio. La tua vita non finirà senza risposte, senza incontri, senza luce. Verrà anche per te il Signore, verrà come aiuto in ciò che fa soffrire, come forza di ciò che fa partire.
       Io non morirò senza aver visto l'offensiva di Dio, l'offensiva del bene, l'offensiva della luce che è già in atto dovunque, l'offensiva del lievito. Poi Simeone canta: ho visto la luce da te preparata per tutti. Ma quale luce emana da Gesù, da questo piccolo figlio della terra che sa solo piangere e succhiare il latte e sorridere agli abbracci? Simeone ha colto l'essenziale: la luce di Dio è Gesù, luce incarnata, carne illuminata, storia fecondata, amore in ogni amore.
         La salvezza non è un opera particolare, ma Dio che è venuto, si lascia abbracciare dall'uomo, è qui adesso, mescola la sua vita alle nostre vite e nulla mai ci potrà più separare. Tornarono quindi alla loro casa. E il Bambino cresceva e la grazia di Dio era su di lui. 
         Tornarono alla santità, alla profezia e al magistero della famiglia, che vengono prima di quelli del tempio. Alla famiglia che è santa perché la vita e l'amore vi celebrano la loro festa, e ne fanno la più viva fessura e feritoia dell'infinito.

(Letture: Genesi 15,1-6; 21,1-3; Salmo 104; Ebrei 11,8.11-12.17-19; Luca 2,22-40)
  
Ermes Ronchi
 

(tratto da www.avvenire.it)

UN ANNO NUOVO .... MEMORIA E SPERANZA

L’anno che viene non è un tuffo nel buio.
 È la memoria il vero motore di speranza

«Ogni fine anno ci affacciamo all’inizio di quello nuovo, con una strana speranza, con tanti piccoli e grandi propositi». Abbiamo scritta dentro una tensione, un’attesa istintiva di vita. E Benedetto XVI invitava ad «avere memoria della bontà di Dio»

Mi ha sempre meravigliato, nella notte di Capodanno, il vedere come anche nei luoghi e nelle case dei più poveri e sfortunati si festeggi: quanto si attenda con ansia lo scoccare dell’anno nuovo, e come in un gran rito collettivo si marchi questo passaggio con brindisi, e fuochi d’artificio, e tappi di bottiglie che saltano con un botto, lasciando andare generoso lo spumante. Ho sempre osservato queste feste, cui pure partecipavo, con una tacita domanda che è in fondo la stessa posta dalla lettrice: sapendo cosa riserva la realtà, come si fa, ogni anno, a sperare ancora?
Indubbiamente, mi sono detta crescendo, abita gli uomini una tenace testarda speranza. Abbiamo scritta dentro una tensione, un’attesa istintiva di vita; e per quanto provati o messi alle corde, risorge sempre la speranza che i giorni a venire siano migliori. È una speranza che può virare anche sull'irrazionale, e che qualcuno, e anzi molti, alimentano leggendo oroscopi, che scrutino nel futuro e annuncino abbondanza.
Allora quell'istinto naturale di vita può cadere nell'illusione, nell'autoinganno.
Ma come si fa invece, davanti al calendario nuovo e immacolato, a nutrire una speranza che sia cristiana e realistica? Anni fa, nell'ottobre 2011, Benedetto XVI in un’Udienza parlò del rapporto tra memoria e speranza. Misi da parte quel testo. Benedetto partiva dal Salmo 136, il Grande Hallel, quello che viene cantato al termine della Pasqua ebraica ed è un inno di lode e grazie a Dio per ciò che ha fatto per Israele. La struttura fondante del Salmo, spiegava il Papa, è che «Israele si ricorda della bontà del Signore. In questa storia ci sono tante valli oscure, ci sono tanti passaggi di difficoltà e di morte, ma Israele si ricorda che Dio era buono e può sopravvivere in questa valle oscura, in questa valle della morte, perché si ricorda. Ha la memoria della bontà del Signore, della sua potenza; la sua misericordia vale in eterno».
E questo, aggiungeva Benedetto, è importante anche per noi: avere memoria della bontà di Dio: «La memoria diventa forza della speranza. La memoria ci dice: Dio c’è, Dio è buono, eterna è la sua misericordia. E così la memoria apre, anche nell’oscurità di un giorno, di un tempo, la strada verso il futuro: è luce e stella che ci guida». Imparare dunque a fare memoria di tutto il bene che ci è stato dato nella nostra vita: madre e padre, famiglia, amici, insegnanti, lavoro, malattie e guarigioni, sconfitte e rinascite, e via via tutti i volti e le circostanze che ci hanno accompagnato, anche nel dolore. Ripercorrendo la nostra storia possiamo ricostruire la trama sottesa di un disegno che ci ha condotto. Riconoscendo quel percorso come in filigrana comprendiamo che possiamo fidarci, e affidarci. Che l’anno che viene, sconosciuto, non è un tuffo nel buio, ma l’andare verso il compimento di noi. Così la memoria diventa realmente motore di speranza. Autentica, però, e fortemente radicata: non attesa superstiziosa che si culla nel frastuono dei fuochi d’artificio. Quei botti della mezzanotte, che mi hanno sempre fatto pensare a bambini che fanno rumore, perché hanno paura del buio.Marina Corradi


 
 

martedì 19 dicembre 2017

MASCHIO o FEMMINA. QUALE IDENTITÀ' ?

IL SIGNIFICATO DELL'IDENTITA' 

       Il libro di Francesco Pesce, “Due Nessuno Centomila. Genere, gender e differenza sessuale” (EDB, 2017), spiega le varie declinazioni del termine “gender” nei vari contesti.
        Quante volte, in questi ultimi anni, abbiamo sentito parlare di gender? Troppo o troppo poco? 
      C’è chi minimizza il problema e c’è chi non perde l’occasione per proiettare paure e catastrofi imminenti attaccando tutto e tutti. Ognuno faccia le proprie considerazioni. Una cosa però è certa: oggi, come ricorda Papa Francesco, non siamo di fronte ad un’epoca di cambiamenti ma ad un cambiamento d’epoca. 
     Libri sull’argomento (gender) ne sono stati pubblicati molti negli ultimi anni, ma la distinzione va fatta all’origine: con questo termine si indicano, da una parte, i cosiddetti “Gender studies” (studi di genere) che cercano di approfondire il significato dell’identità maschile e dell’identità femminile; dall’altra, invece, l’ideologia gender tenta di promuovere un’idea di identità slegata dal corpo, dalle relazioni, dalla storia, dal contesto e, perciò, tutta incentrata sul soggetto stesso. 
      Segnalo un interessante e sintetico libro sull’argomento scritto da Francesco Pesce, dal titolo “Due Nessuno Centomila. Genere, gender e differenza sessuale” (2017, Edizioni Dehoniane Bologna). 
      L’autore precisa subito che, data l’ambiguità di significato della parola “gender”, bisogna fare molta attenzione ai contesti in cui viene utilizzata. Infatti la frase “il gender (o la teoria del gender) non esiste” può essere vera o falsa a seconda del contesto in cui viene pronunciata. Se ci troviamo nell’ambito scientifico, tale cosiddetta “teoria” risulta non documentata e perciò irrilevante. In un dialogo tra genitori all’uscita di una scuola, la stessa frase potrebbe essere falsa: per rendersene conto, basta leggere qualche titolo di giornale o guardare agli incontri organizzati in classe per la distribuzione di alcuni “libretti”. Quindi bisogna fare molta attenzione. 
        Uno degli spunti più interessanti offerti dall’autore è il capitolo che cerca di individuare le cause di questa ideologia. E se fosse per paura di un sereno confronto con l’altro? Mi spiego meglio. La domanda dalla quale si parte è la seguente: perché cercare nell’altro l’identico a sé? Nella Bibbia possiamo leggere «voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». 
     Richiamando Enzo Bianchi, potremmo dire che «l’uomo e la donna sono, infatti, l’uno per l’altro, ma al tempo stesso l’uomo è un problema per la donna e la donna per l’uomo». La donna è un aiuto per l’uomo proprio perché è di fronte a lui e contro di lui (e viceversa): l’altro modo di pensare mi è di aiuto proprio perché mi è contro, perché non posso esserne il padrone, perché resta un mistero, e mi spinge oltre me. 
     L’altro/a è un mondo che sfugge alla presa: per incontrarlo sono chiamato a dominare l’animalità interiore. Per tale motivo la differenza sessuale è impegnativa, spinge l’altro ad una presa di coscienza oppure a… scappare. 
     L’altro sesso mette le persone alla pari, le fa uscire da sé, provoca a diventare adulti. Le relazione (uomo-donna) permette di decentrarsi, perché fa fare i conti con un mondo differente, completamente altro: un altro modo di vedere la realtà. 
     Con Gilles Bernheim (rabbino di Francia), possiamo dire che: «Ogni persona è portata, prima o poi, a riconoscere che possiede solo una delle due varianti fondamentali dell’umanità e che l’altra le sarà per sempre inaccessibile. La differenza sessuale è quindi un segno della nostra finitezza. Io non sono tutto l’umano. Un essere sessuato non è la totalità della sua specie, ha bisogno di un essere dell’altro sesso per produrre il suo simile». 
     Allontanandoci dall’altro sesso ci si allontana, sostanzialmente, dalla possibilità feconda di diventare genitori, con tutto quello che comporta la relazione uomo-donna. Cercare, come si fa oggi, il neutro, l’ibrido, l’androgino, l’unisex fino ad arrivare al “queer” (termine che indica le persone che non si riconoscono in nessun genere) può essere un modo di evitare la fatica della differenza sessuale. 
     Conseguenza? Ci si snatura per non affrontare, consapevolmente, l’altro sesso e per non confrontarsi con la natura del nostro essere persone di sesso maschile o femminile. Comunque la si pensi, occorre convenire che ci troviamo di fronte a problematiche di scottante attualità con cui, o prima o poi, dovremo fare i conti. 

Domenico De Angelis

domenica 10 dicembre 2017

LA NOSTRA VITA SIA UN CANTO DI GIOIA E DI SPERANZA


“Il cristiano è un uomo e una donna di gioia.
Questo ci insegna Gesù, ci insegna la Chiesa, in questo tempo in maniera speciale. Che cosa è, questa gioia? E’ l’allegria? No: non è lo stesso. L’allegria è buona, eh?, rallegrarsi è buono. Ma la gioia è di più, è un’altra cosa. E’ una cosa che non viene dai motivi congiunturali, dai motivi del momento: è una cosa più profonda. E’ un dono. L’allegria, se noi vogliamo viverla tutti i momenti, alla fine si trasforma in leggerezza, superficialità, e anche ci porta a quello stato di mancanza di saggezza cristiana, ci fa un po’ scemi, ingenui, no?, tutto è allegria … no. La gioia è un’altra cosa.  
La gioia è un dono del Signore. Ci riempie da dentro. E’ come una unzione dello Spirito. E questa gioia è nella sicurezza che Gesù è con noi e con il Padre”.L’uomo gioioso, ha proseguito, è un uomo sicuro. Sicuro che “Gesù è con noi, che Gesù è con il Padre”. Ma questa gioia, si chiede il Papa, possiamo “imbottigliarla un po’, per averla sempre con noi?”:“No, perché se noi vogliamo avere questa gioia soltanto per noi alla fine si ammala e il nostro cuore diviene un po’ stropicciato, e la nostra faccia non trasmette quella gioia grande ma quella nostalgia, quella malinconia che non è sana. Alcune volte questi cristiani malinconici hanno più faccia da peperoncini all’aceto che proprio di gioiosi che hanno una vita bella. La gioia non può diventare ferma: deve andare.
La gioia è una virtù pellegrina. E’ un dono che cammina, che cammina sulla strada della vita, cammina con Gesù: predicare, annunziare Gesù, la gioia, allunga la strada e allarga la strada. E’ proprio una virtù dei grandi, di quei grandi che sono al di sopra delle pochezze, che sono al di sopra di queste piccolezze umane, che non si lasciano coinvolgere in quelle piccole cose interne della comunità, della Chiesa: guardano sempre all’orizzonte”.
Il cristiano canta con la gioia, e cammina, e porta questa gioia.
E’ una virtù del cammino, anzi più che una virtù è un dono: “E’ il dono che ci porta alla virtù della magnanimità. Il cristiano è magnanimo, non può essere pusillanime: è magnanimo. E proprio la magnanimità è la virtù del respiro, è la virtù di andare sempre avanti, ma con quello spirito pieno dello Spirito Santo.
E’ una grazia che dobbiamo chiedere al Signore, la gioia. In questi giorni in modo speciale, perché la Chiesa si invita, la Chiesa ci invita a chiedere la gioia e anche il desiderio: quello che porta avanti la vita del cristiano è il desiderio. Quanto più grande è il tuo desiderio, tanto più grande verrà la gioia. Il cristiano è un uomo, è una donna di desiderio: sempre desiderare di più nella strada della vita.
Chiediamo al Signore questa grazia, questo dono dello Spirito: la gioia cristiana. Lontana dalla tristezza, lontana dall’allegria semplice … è un’altra cosa. E’ una grazia da chiedere.