il sottotenente scout
che per primo
fuggì da Auschwitz
Polacco,
dopo due anni di prigionia, grazie al sangue freddo e alla perfetta conoscenza
del tedesco, riuscì a beffare i nazisti.
Il
giovane fu testimone del sacrificio di Massimiliano Kolbe, che si consegnò al
posto di un padre di famiglia.
Ci
sono storie di persone del passato che, pur non celebri o avvolte dall’oblio,
sembrano attenderci per donare speranza. Con Gerolamo Fazzini, già autore un
anno fa della fortunata serie sui “protagonisti dimenticati”, apriamo ogni
giovedì lungo tutta l’estate un ideale album di testimoni credibili della
speranza – nei suoi profili più umani – su cui il Giubileo ci sta invitando a
verificare la nostra stessa vita.
- di
GEROLAMO FAZZINI
-
Alzi
la mano chi non ha mai visto Il fuggitivo, il thriller del
1993 con Harrison Ford. Beh, sappiate che c’è un altro film in circolazione,
col medesimo titolo, ma in polacco: Uciekinier. Non una
pellicola di fantasia, bensì un documentario, uscito nel 2006, che ripercorre
la vicenda di Kaziemierz Piechowski, sottotenente polacco, scout, morto nel
2017, all’età di 98 anni: il primo in assoluto a fuggire da Auschwitz, il 20
giugno 1942, il primo a dare la speranza che fosse possibile scappare
dall’inferno. A parte un breve trafiletto su Repubblica e un
post su Facebook realizzato dal gruppo scout “Felici e ribelli”, però, su
questa bellissima figura in italiano c’è poco o nulla. Nessun editore nostrano
s’è sognato di tradurne l’autobiografia, intitolata Bylem numerem (“Ero
un numero”). Eppure la sua è stata chiamata dal settimanale tedesco Stern -
e a ragione - «una delle fughe più spettacolari del periodo nazista». D ieci
mesi dopo Piechowski, toccherà a un altro militare polacco, Witold Pilecki,
rendersi protagonista di un’avventura di straordinario coraggio, raccontata
nell’autobiografico Il volontario di Auschwitz (Piemme, 2023).
Pilecki si era lasciato catturare e internare nel più tremendo dei lager con un
obiettivo preciso: infiltrarsi, raccogliere informazioni dettagliate sulle
atrocità naziste, organizzare una rete di resistenza clandestina e poi fuggire,
in modo da comunicare l’esito delle le sue scoperte agli Alleati. Per quasi tre
anni operò dall’interno, inviando rapporti segreti attraverso messaggi
clandestini. Tuttavia le sue richieste di un’azione esterna su vasta scala,
come un bombardamento mirato o un attacco per liberare i prigionieri, rimasero
inascoltate o considerate troppo rischiose dagli Alleati. Cosciente che la sua
copertura era a rischio (e che solo una testimonianza diretta avrebbe potuto
scuotere la comunità internazionale), decise di fuggire nella notte fra il
26 e il 27 aprile. N emmeno al giovane studente polacco Jan Karski
(nome di battaglia di Jan Kozielewski) le grandi potenze, purtroppo, hanno dato
credito, nonostante abbia documentato gli orrori nazisti, entrando segretamente
per due volte nel Ghetto di Varsavia e recandosi di nascosto a Izbica, vicino a
Varsavia, da dove migliaia di ebrei cecoslovacchi venivano spediti ai campi di
sterminio di Belzec e Treblinka. Karski - di cui nel 2013 Adelphi ha pubblicato La
mia testimonianza davanti al mondo - incontrò il presidente Franklin
Delano Roosevelt e gli chiese (invano) di bombardare i campi di sterminio. Non
ebbe fortuna nemmeno nel colloquio con Felix Frankfurter, magistrato ebreo
della Corte Suprema, il quale, dopo averlo incontrato, dichiarò: « Non dico che
questo giovane stia mentendo, ma che sono incapace di credergli».
I n
termini di impatto sull’opinione pubblica mondiale, la fuga più significativa
fu realizzata da due giovani ebrei slovacchi: Walter Rosenberg (noto anche come
Rudolf Vrba) e Alfred Wetzler. Avvenuta il 25 aprile 1944, è mirabilmente
narrata da Jonathan Freeland ne L’artista della fuga, pubblicato
da Guanda nel 2023. Entrambi i protagonisti avevano una conoscenza approfondita
di Auschwitz- Birkenau; Vrba, in particolare, aveva lavorato nel Sonderkommando (l’unità
dei prigionieri costretti a lavorare nelle camere a gas e nei crematori). Il
loro dettagliato resoconto, noto come “Rapporto Vrba-Wetzler” (o “Protocolli di
Auschwitz”), descrisse minuziosamente la struttura dei campi, i metodi di
sterminio, il numero di vittime e l’imminente arrivo degli ebrei ungheresi.
Diffuso a livello internazionale, contribuì a fermare le deportazioni di massa
degli ebrei ungheresi ad Auschwitz. Non andò a buon fine, invece, il tentativo
di Mala Zimetbaum ed Edek Galiñski, messo in atto il 24 giugno 1944: lei ebrea
belga, lui detenuto politico polacco, riuscirono a evadere ma presto vennero
catturati e giustiziati, come racconta Francesca Paci in Un amore ad
Auschwitz (Utet, 2020). D unque, Piechowski non è il più
famoso né l’unico fra quanti sono fuggiti dal più tremendo dei lager, ma è
stato il primo. C’è un’altra ragione per la quale dedichiamo particolare
attenzione alla sua storia: come segnala il polacco Jerzy Klistala nel volume Gli
incubi dei campi di concentramento nazisti, delle prigioni e dei campi di
sterminio tra il 1939 e il 1945, il sottotenente scout era presente
all’appello durante il quale, nell’agosto 1941, padre Massimiliano Kolbe
si consegnò al posto del Franciszek Gajowniczek, un padre di famiglia destinato
al bunker della fame. Ma chi era Piechowski? Parlando della sua infanzia a
Tczew, sul fiume Vistola, dice di sé, nell’autobiografia: « Ero uno scout, con
anima e corpo». Due mesi dopo lo scoppio della Seconda Guerra mondiale, il 12
novembre 1939, insieme a un amico scout, lascia il Paese, ormai in mano ai nazisti.
La meta è l’Ungheria, il sogno la Francia: lì si stava formando l’esercito
polacco clandestino. Catturati da una pattuglia tedesca, però, i due vengono
arrestati e torturati, quindi rinchiusi in un campo di lavoro a Tarnów e il 20
giugno 1940, insieme con altri 313 compagni di prigionia, approdano al campo di
concentramento di Auschwitz. Numero di matricola: 918.
I l
motto scout è Estote parati (“Siate pronti”). Dopo due anni di
prigionia, Piechowski decide di fuggire, insieme a tre compagni. Individua il
momento propizio per tentare la fuga, si introduce in magazzino, ruba delle
divise e, utilizzando un’auto delle SS, fugge con i suoi compagni attraverso il
cancello del campo. Il segreto? Uno straordinario sangue freddo e la perfetta
conoscenza del tedesco, appreso in famiglia. Il coraggioso scout riesce persino
- racconterà in un’intervista al Guardian l’11 aprile 2011 -
ad apostrofare in malo modo le guardie naziste perché sollevassero in fretta la
sbarra del campo.
Dopo
la fuga Piechowski entra nell’esercito nazionale, nelle cui file combatte fino
alla fine della guerra. Ma, una volta libero, i guai per lui non sono finiti:
il nuovo governo filo-comunista polacco lo punisce con 10 anni di prigione.
Rinchiuso in carcere, prima a Danzica, poi in diverse altre prigioni, alla fine
viene trasferito e mandato a lavorare in miniera. Dovrà aspettare sette anni
prima di essere liberato. Come per molti testimoni della Shoah, anche a
Kazimierz Piechowski sono serviti lunghi decenni per riuscire a rimettere piede
nel più grande cimitero del mondo. Ad Auschwitz ritorna nel 2000, in occasione
del 60° anniversario del suo primo trasporto dal campo di Tarnów. Lì le
emozioni lo assalgono con violenza: «Vidi il “muro della morte”. Per un attimo
non sentii nulla e non vidi altro che una montagna di cadaveri insanguinati.
Caddi. Chiamarono un medico. Mi fecero delle iniezioni e, dopo mezz’ora, ero
fuori di lì. È la sindrome di Auschwitz». L’ultima parola di
Piechowski, però, è un invito alla speranza: «Sono un boy scout, lo sarò fino
alla fine della mia vita - ha dichiarato alla rivista tedesca Der
Spiegel - e quindi ho il dovere di essere grato e allegro».