giovedì 14 agosto 2025

SEMINATORI DI SPERANZA


Piechowski, 

il sottotenente scout

 che per primo 

fuggì da Auschwitz

 

 Polacco, dopo due anni di prigionia, grazie al sangue freddo e alla perfetta conoscenza del tedesco, riuscì a beffare i nazisti.

Il giovane fu testimone del sacrificio di Massimiliano Kolbe, che si consegnò al posto di un padre di famiglia.

Ci sono storie di persone del passato che, pur non celebri o avvolte dall’oblio, sembrano attenderci per donare speranza. Con Gerolamo Fazzini, già autore un anno fa della fortunata serie sui “protagonisti dimenticati”, apriamo ogni giovedì lungo tutta l’estate un ideale album di testimoni credibili della speranza – nei suoi profili più umani – su cui il Giubileo ci sta invitando a verificare la nostra stessa vita.

 

-       di GEROLAMO FAZZINI

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Alzi la mano chi non ha mai visto Il fuggitivo, il thriller del 1993 con Harrison Ford. Beh, sappiate che c’è un altro film in circolazione, col medesimo titolo, ma in polacco: Uciekinier. Non una pellicola di fantasia, bensì un documentario, uscito nel 2006, che ripercorre la vicenda di Kaziemierz Piechowski, sottotenente polacco, scout, morto nel 2017, all’età di 98 anni: il primo in assoluto a fuggire da Auschwitz, il 20 giugno 1942, il primo a dare la speranza che fosse possibile scappare dall’inferno. A parte un breve trafiletto su Repubblica e un post su Facebook realizzato dal gruppo scout “Felici e ribelli”, però, su questa bellissima figura in italiano c’è poco o nulla. Nessun editore nostrano s’è sognato di tradurne l’autobiografia, intitolata Bylem numerem (“Ero un numero”). Eppure la sua è stata chiamata dal settimanale tedesco Stern - e a ragione - «una delle fughe più spettacolari del periodo nazista». D ieci mesi dopo Piechowski, toccherà a un altro militare polacco, Witold Pilecki, rendersi protagonista di un’avventura di straordinario coraggio, raccontata nell’autobiografico Il volontario di Auschwitz (Piemme, 2023). Pilecki si era lasciato catturare e internare nel più tremendo dei lager con un obiettivo preciso: infiltrarsi, raccogliere informazioni dettagliate sulle atrocità naziste, organizzare una rete di resistenza clandestina e poi fuggire, in modo da comunicare l’esito delle le sue scoperte agli Alleati. Per quasi tre anni operò dall’interno, inviando rapporti segreti attraverso messaggi clandestini. Tuttavia le sue richieste di un’azione esterna su vasta scala, come un bombardamento mirato o un attacco per liberare i prigionieri, rimasero inascoltate o considerate troppo rischiose dagli Alleati. Cosciente che la sua copertura era a rischio (e che solo una testimonianza diretta avrebbe potuto scuotere la comunità internazionale), decise di fuggire nella notte fra il 26 e il 27 aprile. N emmeno al giovane studente polacco Jan Karski (nome di battaglia di Jan Kozielewski) le grandi potenze, purtroppo, hanno dato credito, nonostante abbia documentato gli orrori nazisti, entrando segretamente per due volte nel Ghetto di Varsavia e recandosi di nascosto a Izbica, vicino a Varsavia, da dove migliaia di ebrei cecoslovacchi venivano spediti ai campi di sterminio di Belzec e Treblinka. Karski - di cui nel 2013 Adelphi ha pubblicato La mia testimonianza davanti al mondo - incontrò il presidente Franklin Delano Roosevelt e gli chiese (invano) di bombardare i campi di sterminio. Non ebbe fortuna nemmeno nel colloquio con Felix Frankfurter, magistrato ebreo della Corte Suprema, il quale, dopo averlo incontrato, dichiarò: « Non dico che questo giovane stia mentendo, ma che sono incapace di credergli».

I n termini di impatto sull’opinione pubblica mondiale, la fuga più significativa fu realizzata da due giovani ebrei slovacchi: Walter Rosenberg (noto anche come Rudolf Vrba) e Alfred Wetzler. Avvenuta il 25 aprile 1944, è mirabilmente narrata da Jonathan Freeland ne L’artista della fuga, pubblicato da Guanda nel 2023. Entrambi i protagonisti avevano una conoscenza approfondita di Auschwitz- Birkenau; Vrba, in particolare, aveva lavorato nel Sonderkommando (l’unità dei prigionieri costretti a lavorare nelle camere a gas e nei crematori). Il loro dettagliato resoconto, noto come “Rapporto Vrba-Wetzler” (o “Protocolli di Auschwitz”), descrisse minuziosamente la struttura dei campi, i metodi di sterminio, il numero di vittime e l’imminente arrivo degli ebrei ungheresi. Diffuso a livello internazionale, contribuì a fermare le deportazioni di massa degli ebrei ungheresi ad Auschwitz. Non andò a buon fine, invece, il tentativo di Mala Zimetbaum ed Edek Galiñski, messo in atto il 24 giugno 1944: lei ebrea belga, lui detenuto politico polacco, riuscirono a evadere ma presto vennero catturati e giustiziati, come racconta Francesca Paci in Un amore ad Auschwitz (Utet, 2020). D unque, Piechowski non è il più famoso né l’unico fra quanti sono fuggiti dal più tremendo dei lager, ma è stato il primo. C’è un’altra ragione per la quale dedichiamo particolare attenzione alla sua storia: come segnala il polacco Jerzy Klistala nel volume Gli incubi dei campi di concentramento nazisti, delle prigioni e dei campi di sterminio tra il 1939 e il 1945, il sottotenente scout era presente all’appello durante il quale, nell’agosto 1941, padre Massimiliano Kolbe si consegnò al posto del Franciszek Gajowniczek, un padre di famiglia destinato al bunker della fame. Ma chi era Piechowski? Parlando della sua infanzia a Tczew, sul fiume Vistola, dice di sé, nell’autobiografia: « Ero uno scout, con anima e corpo». Due mesi dopo lo scoppio della Seconda Guerra mondiale, il 12 novembre 1939, insieme a un amico scout, lascia il Paese, ormai in mano ai nazisti. La meta è l’Ungheria, il sogno la Francia: lì si stava formando l’esercito polacco clandestino. Catturati da una pattuglia tedesca, però, i due vengono arrestati e torturati, quindi rinchiusi in un campo di lavoro a Tarnów e il 20 giugno 1940, insieme con altri 313 compagni di prigionia, approdano al campo di concentramento di Auschwitz. Numero di matricola: 918.

I l motto scout è Estote parati (“Siate pronti”). Dopo due anni di prigionia, Piechowski decide di fuggire, insieme a tre compagni. Individua il momento propizio per tentare la fuga, si introduce in magazzino, ruba delle divise e, utilizzando un’auto delle SS, fugge con i suoi compagni attraverso il cancello del campo. Il segreto? Uno straordinario sangue freddo e la perfetta conoscenza del tedesco, appreso in famiglia. Il coraggioso scout riesce persino - racconterà in un’intervista al Guardian l’11 aprile 2011 - ad apostrofare in malo modo le guardie naziste perché sollevassero in fretta la sbarra del campo.

Dopo la fuga Piechowski entra nell’esercito nazionale, nelle cui file combatte fino alla fine della guerra. Ma, una volta libero, i guai per lui non sono finiti: il nuovo governo filo-comunista polacco lo punisce con 10 anni di prigione. Rinchiuso in carcere, prima a Danzica, poi in diverse altre prigioni, alla fine viene trasferito e mandato a lavorare in miniera. Dovrà aspettare sette anni prima di essere liberato. Come per molti testimoni della Shoah, anche a Kazimierz Piechowski sono serviti lunghi decenni per riuscire a rimettere piede nel più grande cimitero del mondo. Ad Auschwitz ritorna nel 2000, in occasione del 60° anniversario del suo primo trasporto dal campo di Tarnów. Lì le emozioni lo assalgono con violenza: «Vidi il “muro della morte”. Per un attimo non sentii nulla e non vidi altro che una montagna di cadaveri insanguinati. Caddi. Chiamarono un medico. Mi fecero delle iniezioni e, dopo mezz’ora, ero fuori di lì. È la sindrome di Auschwitz». L’ultima parola di Piechowski, però, è un invito alla speranza: «Sono un boy scout, lo sarò fino alla fine della mia vita - ha dichiarato alla rivista tedesca Der Spiegel - e quindi ho il dovere di essere grato e allegro».

 La foto per la schedatura di Kazimierz Piechowski al “KL Auschwitz” (“Konzentrationslager Auschwitz”)

 Avvenire, 14 agosto 2025

 


lunedì 11 agosto 2025

GIOVANI, OSATE I SOGNI

 


 I giovani di oggi sono molto diversi da quelli di ieri, perché repentino è stato il cambiamento sociale degli ultimi decenni. 
Agli adulti spetta la responsabilità di non sottrarre loro la dimensione della generatività, senza la quale non c’è futuro.

Luciano Manicardi

Mentre parlava dei giovani come coloro che «in se stessi rappresentano la speranza», papa Francesco puntava il dito sulla responsabilità degli adulti nei loro confronti: «Non possiamo deluderli… prendiamoci cura delle giovani generazioni» (Spes non confundit, 12). La speranza dei giovani è anche responsabilità degli adulti. E ciò di cui gli adulti devono anzitutto prendere coscienza, e che devono conoscere, è quella che Michel Serres, parlando appunto dei giovani, ha chiamato la «nascita di un nuovo umano». 

Quelli di oggi sono giovani che, rispetto ai loro padri, hanno diversa attesa di vita, diversa famiglia, diversa sofferenza, diversa formazione – ormai monopolio dei media –, diverso spazio in cui vivere grazie alla «onniconnettività», diverso linguaggio, diverso modo di pensare e relazionarsi alla realtà, diversa temporalità, diverso rapporto con il lavoro, diversi legami dovuti alla precarizzazione delle appartenenze (nazionali, politiche, religiose, di genere). Prima responsabilità degli adulti è ascoltare, conoscere, comprendere

Solo ora cominciamo ad avere una certa conoscenza degli effetti che la familiarità quotidiana – praticamente fin dalla culla – con gli smartphone, può avere sui bambini e sugli adolescenti. Jonathan Haidt, studiando la generazione Z (i nati dopo il 1995), ha notato la crescita di fenomeni di ansia, angoscia, depressione, comportamenti autolesionistici, suicidi. Crescere avvolti nel cosiddetto mondo virtuale non aiuta certo ad affrontare il mondo reale e influenza pesantemente lo sviluppo sociale e neurologico dei bambini. Nel suo libro La generazione ansiosa, dopo aver notato che da un’infanzia fondata sul gioco si è passati a un’infanzia fondata sul telefono, l’autore sostiene che l’iperprotezione nel mondo reale e la scarsa protezione nel mondo virtuale sono alla base dell’«ansietà» di questa generazione

Ma, soprattutto, agli adulti spetta di dare fiducia e fare spazio al giovane, non di istituire paragoni e giudicare. Solo dando fiducia si crea speranza. Responsabilità sociale e culturale, oggi, è recuperare la dimensione della generatività senza la quale i giovani vengono derubati del futuro: se il mondo del lavoro, l’economia, la politica si appiattiscono sul presente, investendo e puntando su obiettivi solo di breve e brevissimo termine, le giovani generazioni ne pagano le conseguenze. Senza fiducia nel futuro viene tolta speranza ai giovani. Il deficit di generatività è connesso alla scomparsa dell’iniziazione nelle società occidentali. Le iniziazioni sono ritualizzazioni dei passaggi dell’esistenza umana che insegnano all’iniziato il prezzo del vivere, inculcando l’antico principio del «muori e divieni». 

Purtroppo, ormai in Occidente mancano (o sono in grave crisi) istituzioni deputate ad accompagnare la crescita umana del giovane. Vi è necessità di una educazione emotiva che dia strumenti al giovane per riconoscere, nominare e governare le proprie emozioni. Altrimenti succederà sempre più spesso che emozioni non riconosciute di rabbia vengano disregolate in aggressività, portando a violenze; o che emozioni non riconosciute di tristezza vengano disregolate in depressione. Così come sarebbe fondamentale una formazione al pensare, alla solitudine, al silenzio, al lavoro di conoscenza di sé, alla coltivazione dell’interiorità. 

E che cosa spetta al giovane? È fondamentale per un giovane imparare a guardarsi dal demone della facilità. Egli incontra oggi un’abbondante offerta di beni di comfort (enormemente accresciuta grazie al digitale) che danno gratificazione immediata, ma poi producono assuefazione, dipendenza e, alla lunga, noia, non gioia. Inoltre, abituano a una temporalità del tutto e subito, contraria al lavoro paziente, fatto anche di attese, correzioni e revisioni cammin facendo, tipiche di quel work in progress che è la costruzione di relazioni profonde. Relazioni in cui consistono tanto il senso quanto la felicità di una vita. 

Ha scritto frère Roger di Taizé: «Solo l’umile dono della propria persona ci rende felici». I cosiddetti beni di stimolo richiedono fatica, sforzo, impegno e risultano meno appetibili, ma solo assumendo la dimensione della fatica e dello sforzo si può costruire un sé robusto e relazioni serie. I beni di stimolo sono beni culturali, relazionali, afferenti l’ambito sociale (per esempio, il volontariato), la pratica sportiva, l’ambito spirituale. Ma per impegnare fatica e sforzo il giovane deve nutrire una passione, perché solo questa gli permette di raccogliere le proprie energie e porle a servizio del perseguimento del proprio scopo. Un consiglio ai giovani?

Coltivate creatività e immaginazione. E abbiate coraggio: osate voi stessi e il vostro desiderio.

Messaggero di Sant'Antonio

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giovedì 7 agosto 2025

CREATORI DI FUTURO

 


 OLTRE

 L’IDEOLOGIA 

DEL FARE

 E DELL’AVERE


-       di FRANCESCO CICIONE

Parlare di “giovani” significa parlare di “futuro”. E parlare di “futuro”, per chi come me si occupa di “innovazione”, significa necessariamente parlare di “cambiamento”. A maggior ragione in un’epoca senza precedenti per l’intensità, la profondità e la velocità dei mutamenti in atto. Ma si può davvero parlare di “futuro”, di “innovazione” e di “cambiamento” autenticamente possibili, senza interrogarsi sul “senso”?

Vanitas vanitatum

Nella Giornata Mondiale dei Giovani, papa Leone XIV ha pronunciato un’esortazione che scuote le coscienze e che, in poche parole, racchiude tanti significati necessari: « Comprare, ammassare, consumare non basta per placare la sete che arde nel cuore dell’uomo ». Risuona (probabilmente non per caso) la contestuale lettura domenicale del Qoelet: « Vanitas vanitatum et omnia vanitas » (« vanità delle vanità, tutto è vanità»), « praeter amare Deum et illi soli servire » («eccetto amare Dio e servire Lui solo»), verrà precisato molti secoli dopo ne L’imitazione di Cristo. La sapienza biblica ricorda che ogni sforzo, se privo di un significato autentico, rischia di tradursi in un vano “ rincorrere il vento”. Pura idolatria del “fare” e dell’”avere”, che ci impedisce di “essere”. Perché, ricorda ancora una volta il Qoelet, la chiamata universale dell’umanità e di ogni persona, è ad “essere”, appunto: « Egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore ». L’attuale modello di sviluppo (e, conseguentemente, di società) è, invece, ontologicamente acquisitivo, incrementale ed estrattivo. Disumano, dunque. Le mirabili sorti e progressive ci sono, probabilmente, sfuggite di mano. Un dato, su tutti, lo testimonia.

 La tecno-sfera

La tecno-sfera ha raggiunto e superato la massa della bio-sfera. La massa artificiale prevale sulla massa naturale. Non si tratta, quindi e solo, di governare l’avvento dell’intelligenza artificiale. Quanto di governare l’avvento della società artificiale. Dopo la società aperta e la società liquida siamo, infatti, entrati nell’era dell’antropocene aumentato. Tutto sta diventando artificiale. E questa artificialità ci schiaccia, ci soffoca, ci sovrasta, ci uccide. Eppure, ci ostiniamo a non cambiare. Siamo prigionieri di noi stessi, dei nostri vizi, della nostra voluttà, della nostra ingordigia, della nostra superbia, del nostro falso benessere. Empi ed infelici. Poiché non può esserci felicità nell’ingiustizia.

Viviamo da carnefici.

Il nostro stile di vita costa letteralmente la vita di un pezzo di umanità presente e futura. La storia ci presenterà il conto. La storia ci sta già presentando il conto. Dobbiamo cambiare. Dobbiamo ricomporre la frattura tra verità dell’essere e verità dei fini. Al motto olimpico dobbiamo sostituire il motto aureo. Dobbiamo ricominciare ad agire da buoni antenati delle future generazioni e da buoni discendenti delle generazioni che ci hanno preceduti. Dobbiamo vivere da custodi e non da proprietari del creato. Dobbiamo ricordare che il nostro diritto di proprietà non è ius utenti et abutendi bensì potestas procurandi et dispensandi.

Abbiamo urgente bisogno di una nuova matematica e di una nuova grammatica dello sviluppo. Lo desideriamo tutti, ma nessuno ha il coraggio di farlo. Nessuno ha la forza di abbandonare la propria comfort zone. Vorremmo che fossero gli altri a cambiare affinché ciascuno possa mantenere i propri privilegi. Non può esserci cambiamento restando all’interno dello schema che vogliamo cambiare. Siamo chiamati ad essere controintuitivi, ad inseguire “ virtute e nuova canoscenza”, oltre l’extrema thule del mondo conosciuto.

Speranza di futuro

I giovani, piccolo grande gregge, possono e debbono essere, vera speranza di futuro. Come scriveva il filosofo tedesco Wilhelm Dilthey, «il giovane è quel punto di crisi tra ciò che è stato e ciò che sarà»: una crisi passa per il disorientamento e diventa soglia creativa, opportunità di ripensare criticamente l’idea stessa di progresso e di società.

Per assolvere a questo compito ai giovani (oggi come ieri, oggi come domani) è chiesto, però, di scegliere coraggiosamente ed autenticamente: essere “consumatori di presente” o “creatori di futuro”? Inseguire una felicità effimera e non duratura fondata sul possesso dei beni, o ricercare, passo dopo passo, fatica dopo fatica, la gioia che non muore e che dona senso alla vita? Perché è nella fatica che troviamo la verità, ed è nella verità che troviamo la salvezza. 

Sant’Agostino nel suo Discorso sul Vangelo di Giovanni, ha indicato la via: «Se vuoi che il mondo diventi un luogo migliore, comincia a custodire il tuo cuore». È da questo cuore custodito e orientato al bene autentico e non retorico che può nascere davvero un mondo nuovo, un mondo migliore, un mondo armonico.

www.avvenire.it

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venerdì 1 agosto 2025

MIGLIORARSI ASSIEME


 

Il calo dei volontari e il loro ruolo

 

-       di VANESSA PALLUCCHI

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C’è una forza centrifuga all’individualismo, al consumismo dei sentimenti e all’indifferenza, che sta scuotendo il nostro Paese. E c’è una spinta alla solidarietà che viaggia in senso opposto, non si arrende e trova anche nuove forme di espressione per continuare a esistere.

L’Italia solidale che resiste dopo la pandemia, in una fase di crisi partecipativa e di aumento di povertà e solitudini mi sembra il primo dato da estrarre dall’indagine di Istat sul volontariato, di cui Avvenire ha scritto ieri, che conferma i 4,7 milioni di volontari italiani pilastro della coesione sociale. Ma i nuovi dati sono in grado di raccontarci anche molto altro, che riassumerei in tre punti: i numeri, le tendenze, i perché.

Partiamo dai numeri. Già la fotografia scattata da Istat nel 2023 (riferita al 2021, per il Censimento degli enti non profit) aveva evidenziato un rilevante calo, in dieci anni, di circa 900mila volontari. Se da una parte, però, la conferma di questi numeri non ci stupisce oggi, dall’altra la diminuzione non ci ha lasciati indifferenti nel tempo trascorso. Si è infatti avviato un processo, stimolato anche da un dibattito pubblico, che ha iniziato a interrogare le organizzazioni sulla loro capacità di attrarre i volontari e, più in generale, sulle trasformazioni del contesto in cui operano e sul modello evolutivo da perseguire. Tornando ai numeri, possiamo anche constatare come oggi ci troviamo in un momento di stabilizzazione, se non addirittura di timida ripresa dell’impegno volontario, se consideriamo che le stime Istat del 2023 parlavano di 4,6 milioni di volontari.

Passando alle tendenze, tra le novità più rilevanti dell’indagine c’è sicuramente l’aumento di volontari che svolgono attività in forma “ibrida”, cioè sia all’interno di organizzazioni che attraverso aiuti diretti (nonostante il calo riguardi entrambe le forme prese singolarmente). Interessante è anche la crescita dell’impegno nelle attività ricreative e culturali. Entrambe queste tendenze riflettono l’emergere di nuovi bisogni, tanto dei volontari quanto delle comunità in cui operano, e dunque la ricerca di nuove risposte sociali. È compito, assolutamente cruciale, delle organizzazioni quello di leggere queste trasformazioni ed evolvere, rafforzando quegli elementi che più le contraddistinguono, a partire dalla capacità di costruire reti sociali laddove la società attuale tende a disgregare; di offrire una cornice di valori condivisi e una visione di futuro migliore possibile laddove prende spazio disillusione e paura; di favorire l’acquisizione di competenze, importanti anche per la crescita personale dei volontari; di porsi come facilitatrici tra il desiderio e l’effettiva possibilità di realizzare azioni concrete di cittadinanza attiva. Infine, veniamo ai “perché”. Credo sia un segnale molto positivo la maggiore predisposizione, evidenziata da Istat anche in chi svolge aiuti diretti, a indirizzare il proprio contributo verso la collettività, l’ambiente, il territorio piuttosto che verso relazioni interpersonali dirette. In una fase complicata e spesso cupa come quella che viviamo, assume più peso il sentirsi immersi in un simile destino con il prossimo anche sconosciuto, e quindi la necessità di resistere e migliorare assieme. La realizzazione che “nessuno si salva da solo”, come diceva anche papa Francesco, pare accomunare sempre più persone.

Al Terzo settore l’incarico di offrire tutti i migliori strumenti per difendere e incoraggiare il desiderio di solidarietà.

 

Portavoce Forum Nazionale del Terzo Settore

www.avvenire.it  

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