martedì 25 febbraio 2020

QUARESIMA, TEMPO DI CONVERSIONE

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA QUARESIMA 2020

«Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20)

Cari fratelli e sorelle!
Anche quest’anno il Signore ci concede un tempo propizio per prepararci a celebrare con cuore rinnovato il grande Mistero della morte e risurrezione di Gesù, cardine della vita cristiana personale e comunitaria. A questo Mistero dobbiamo ritornare continuamente, con la mente e con il cuore. Infatti, esso non cessa di crescere in noi nella misura in cui ci lasciamo coinvolgere dal suo dinamismo spirituale e aderiamo ad esso con risposta libera e generosa.
1. Il Mistero pasquale, fondamento della conversione
La gioia del cristiano scaturisce dall’ascolto e dall’accoglienza della Buona Notizia della morte e risurrezione di Gesù: il kerygma. Esso riassume il Mistero di un amore «così reale, così vero, così concreto, che ci offre una relazione piena di dialogo sincero e fecondo» (Esort. ap. Christus vivit, 117). Chi crede in questo annuncio respinge la menzogna secondo cui la nostra vita sarebbe originata da noi stessi, mentre in realtà essa nasce dall’amore di Dio Padre, dalla sua volontà di dare la vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Se invece si presta ascolto alla voce suadente del “padre della menzogna” (cfr Gv 8,45) si rischia di sprofondare nel baratro del nonsenso, sperimentando l’inferno già qui sulla terra, come testimoniano purtroppo molti eventi drammatici dell’esperienza umana personale e collettiva.
In questa Quaresima 2020 vorrei perciò estendere ad ogni cristiano quanto già ho scritto ai giovani nell’Esortazione apostolica  Christus vivit: «Guarda le braccia aperte di Cristo crocifisso, lasciati salvare sempre nuovamente. E quando ti avvicini per confessare i tuoi peccati, credi fermamente nella sua misericordia che ti libera dalla colpa. Contempla il suo sangue versato con tanto affetto e lasciati purificare da esso. Così potrai rinascere sempre di nuovo» (n. 123). La Pasqua di Gesù non è un avvenimento del passato: per la potenza dello Spirito Santo è sempre attuale e ci permette di guardare e toccare con fede la carne di Cristo in tanti sofferenti.
2. Urgenza della conversione
È salutare contemplare più a fondo il Mistero pasquale, grazie al quale ci è stata donata la misericordia di Dio. L’esperienza della misericordia, infatti, è possibile solo in un “faccia a faccia” col Signore crocifisso e risorto «che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Un dialogo cuore a cuore, da amico ad amico. Ecco perché la preghiera è tanto importante nel tempo quaresimale. Prima che essere un dovere, essa esprime l’esigenza di corrispondere all’amore di Dio, che sempre ci precede e ci sostiene. Il cristiano, infatti, prega nella consapevolezza di essere indegnamente amato. La preghiera potrà assumere forme diverse, ma ciò che veramente conta agli occhi di Dio è che essa scavi dentro di noi, arrivando a scalfire la durezza del nostro cuore, per convertirlo sempre più a Lui e alla sua volontà.
In questo tempo favorevole, lasciamoci perciò condurre come Israele nel deserto (cfr Os 2,16), così da poter finalmente ascoltare la voce del nostro Sposo, lasciandola risuonare in noi con maggiore profondità e disponibilità. Quanto più ci lasceremo coinvolgere dalla sua Parola, tanto più riusciremo a sperimentare la sua misericordia gratuita per noi. Non lasciamo perciò passare invano questo tempo di grazia, nella presuntuosa illusione di essere noi i padroni dei tempi e dei modi della nostra conversione a Lui. .... 

UN VIRUS CHE CI PREOCCUPA E CI INTERROGA

Le patologie del corpo e 
quelle dell’anima

di Giuseppe Savagnone *

L’assurgere del coronavirus a protagonista quasi esclusivo della vita del nostro Paese non è solo un fenomeno che riguarda la sfera della salute fisica, ma sta mettendo in luce patologie che si annidano a un livello più profondo, quello dell’anima degli italiani, e che dovrebbero preoccuparci non meno dell’allarme sanitario.
Il virus come strumento di polemica partitica…
Una prima patologia è il clima di esasperata conflittualità politica che ha reso impossibile, perfino in questo momento di emergenza nazionale, una risposta solidale alla sfida del virus. Una parte dell’opposizione – quella che fa capo alla Lega – sembra concentrare in questi giorni la propria attenzione, più che sull’epidemia, sulle vere o presunte responsabilità del governo, trasformando lo stato di calamità nazionale in uno strumento per delegittimare  il premier e giungere, come ha sempre sperato, a nuove elezioni.
Per averne un saggio, basta leggere i titoli di prima pagina di alcuni quotidiani, portavoce abituali di questa destra politica, dove, a differenza di quelli delle altre testate, volti a informare sulla gravità della situazione e sulle misure prese per fronteggiarla, si pensa ad attaccare l’esecutivo.
… invece che come sfida che crea solidarietà
Ora, sono personalmente convinto (come molti altri) che, nella gestione dell’emergenza, si siano fatti alcuni errori – per esempio quello di bloccare i voli diretti con la Cina, rendendo così impossibile monitorare i viaggiatori provenienti da là e che sono giunti egualmente in Italia attraverso altri scali. Ma forse in questo momento sarebbe stato il caso di accantonare i propri rancori di parte e puntare, per una volta, sulla solidarietà nazionale. Tanto più che un indebolimento o addirittura le dimissioni del governo, in questa delicatissima congiuntura, avrebbero come unico effetto quello di consegnare il Paese al caos.
La soluzione è difendere le frontiere?
Una seconda patologia è l’ostinazione nell’attribuire la causa dei mali italiani alla mancata difesa delle frontiere. Alcuni giornali hanno legato l’accoglienza all’arrivo del contagio in Italia. Cosa che riprende la polemica del leader della Lega, Salvini, che in diversi interventi pubblici di questi giorni ha collegato il problema della diffusione del coronavirus a quello, da sempre centrale nella sua battaglia politica, della difesa delle frontiere dai migranti.
Citiamo alcuni di questi interventi: «Governo ha sottovalutato coronavirus, far sbarcare migranti ora è irresponsabile». «Forse ora qualcuno avrà capito che è necessario chiudere, controllare, blindare, bloccare, proteggere?». «Blindiamo e sigilliamo i confini».
Ma quali frontiere?
In realtà, proprio la diffusione del coronavirus sta evidenziando in modo irrefutabile l’impossibilità, nel mondo globalizzato, di “blindare e sigillare i confini”. Uno slogan fallace anche quando Salvini faceva il braccio di ferro con Carola Rakete, mentre centinaia di migranti, fuori dal raggio dei riflettori, sbarcavano sulle nostre spiagge dai barconi.
Adesso l’idea di chiudere le frontiere è resa ancora più assurda per il fatto che non si sa più quali siano queste frontiere. Quelle con l’Africa, ancora tenacemente evocate dal leader della Lega, non c’entrano nulla con l’epidemia in corso, che sicuramente non è venuta da là. E non ne abbiamo in comune con la Cina. L’unico blocco possibile, quello dei voli diretti, è stato probabilmente, come si diceva un errore, perché ha reso incontrollabile il flusso di coloro che venivano da quel Paese. E certo Salvini non pretende che «blindiamo» i nostri confini chiudendoci al mondo intero, perché una tale misura sarebbe, per l’Italia come per chiunque altro, un suicidio economico (si pensi al turismo, agli scambi commerciali…) .
Il virus è tra noi
Non c’è dunque nessuna frontiera da chiudere. Tanto più che il virus che ci aggredisce non ha nazionalità e non ha bisogno di chiedere nessun permesso di soggiorno, perché, quale che sia stata la sua originaria provenienza, sono degli italiani a esserne portatori, e non lo hanno preso in Cina, ma al bar sotto casa loro. La netta contrapposizione fra “noi di dentro” e “gli altri di fuori”, che è stata il leit motiv della campagna sull’opinione pubblica italiana in questi ultimi due anni, naufraga miseramente in una situazione in cui la minaccia può venire anche dal nostro vicino di casa.
Il virus come attentato alla sicurezza
Una terza patologia che il coronavirus sta rivelando è la fragilità di una popolazione italiana invecchiata, che da troppo tempo ha assunto come valore fondamentale la sicurezza e che teme sopra ogni altra cosa il rischio (quello della morte, ma anche quello della vita: vedi calo drammatico delle nascite). Da qui la diffidenza verso chi è “diverso”. Da qui il panico che si è impadronito del Paese davanti a questo virus “straniero”, sconosciuto, subito demonizzato come una nuova peste.
Il disaccordo tra gli scienziati
Non ho nulla contro il virologo Burioni, ma al posto suo avrei evitato, almeno per ovvi motivi psicologici, di paragonare la mortalità potenziale del Covid-19 a quella dell’influenza spagnola, che tra il 1918 e il 1920 fece milioni di vittime in tutto il mondo.
Non sono in grado di dare una valutazione sulla fondatezza di questa sua affermazione. Ma prendo atto che scienziati altrettanto autorevoli vedono la situazione in modo molto diverso. È il caso di Maria Rita Gismondo, virologa responsabile del laboratorio dell’ospedale Sacco di Milano: «A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così. Guardate i numeri (…). Non è pandemia! Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per coronavirus 1!».
Anche un’altra illustre virologa italiana, Ilaria Capua, che negli Stati Uniti dirige il One Health Center of Excellence della University of Florida, intervistata da Lucia Annunziata, ha sostenuto che quella in atto è «una sindrome simil-influenzale» che potrebbe durare «fino a primavera inoltrata o prima dell’estate». E ha espresso la sua convinzione «che il virus farà il giro del mondo in tempi abbastanza rapidi, perché siamo tanti e il virus troverà tanti corpi, come batterie. Ma non vuol dire che ci saranno forme gravi, anzi molto probabilmente sarà sempre più debole».
Un giudizio che francamente non si presta a paralleli con la micidiale “spagnola”. E che di sicuro non autorizzerebbe le scene di panico collettivo a cui stiamo assistendo in questi giorni. Chi ha ragione? Le autorità fanno bene a prendere le misure più severe, tenendo conto delle peggiori eventualità, ma il loro invito alla calma andrebbe preso più sul serio.
Il virus ci costringe a vedere la nostra finitezza
Il punto è – e questa è forse la patologia più insidiosa, tra quelle messe in evidenza dal coronavirus – che l’individuo della società industrializzata e consumistica, inebriato e stordito dal suo frenetico attivismo, stenta ad accettare i limiti che derivano dalla sua strutturale finitezza. Anche se ci siamo ormai da tempo lasciati alle spalle le filosofie ottocentesche che esaltavano il Soggetto, mettendolo al posto di Dio, la maggior parte vive tenendo il più possibile lontano dal proprio sguardo l’ineluttabile realtà della sofferenza, della malattia e della morte. Come ha scritto Pascal, «gli uomini, non avendo potuto guarire la morte  (…), hanno deciso di non pensarci per rendersi felici». E d’altronde, ci siamo costruiti un tipo di vita in cui non c’è il tempo di pensare ad altro che alle scadenze immediate.
Questa anestesia collettiva ora viene messa in crisi. Per quanto possa essere ridotto, di fatto, l’effetto letale del coronavirus, nell’immaginario collettivo un’epidemia richiama sempre, inevitabilmente, la precarietà della vita e la possibilità angosciosa della morte. È questa angoscia che si annida sordamente al fondo del panico diffuso.
Una finestra sulla vita
Eppure, proprio perché ci costringe a fermarci e a riflettere, l’epidemia in corso, con i suoi tantissimi aspetti negativi, può anche essere l’occasione di una guarigione dalla superficialità a cui la fretta spesso ci costringe. E questa presa di coscienza non è necessariamente motivo di disperazione. La finitezza e la vulnerabilità non sono di per sé una maledizione. Se accettate, esse possono costituire, come ha detto qualcuno, «una finestra sulla vita», un modo per viverla più intensamente.
Unirci a quelli che fanno la loro parte
Forse dobbiamo a un virus l’occasione di guardarci allo specchio e di prendere coscienza dei nostri demoni. Senza dimenticare che questo specchio ci rimanda anche il volto di tanti che si stanno sforzando, in questi giorni, di fare, con serietà e con coraggio, il possibile e qualche volta l’impossibile per contribuire al bene comune. Ma il modo migliore per onorarli non è di tessere il loro elogio, bensì di imitarli come possiamo, facendo umilmente ciascuno la propria parte.

*Direttore Ufficio Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo.
Scrittore ed Editorialista.



venerdì 14 febbraio 2020

IL BOSCO. UNA RISORSA PER TUTTI. MIGLIORA LA QUALITA' DELLA VITA E DEGLI APPRENDIMENTI

"Portate un bambino nei boschi 
e lo renderete libero. 
Portate un adulto nei boschi 
ed egli ritroverà il bambino che è in lui”
di Elena Bernabé
Il bosco è un ambiente magico, sotto una miriade di punti di vista. Proprio per questa sua peculiarità dovremo frequentarlo spesso, quotidianamente se possibile, perché è un nutrimento eccezionale per l’anima di grandi e piccini.
Provate ad inoltrarvi in un bosco e vivere le sensazioni che vi smuove quest’esperienza. Innanzitutto ci rendiamo subito conto che non è l’uomo a comandare come nelle città ma la natura, i maestosi fratelli alberi che ci sovrastano, gli animali liberi di vivere come meglio credono. Regna il silenzio, la pace, l’apparente solitudine. Spesso il bosco spaventa proprio perché l’uomo non si sente padrone dell’ambiente, non sa cosa aspettarsi, non conosce i sentieri, non è a conoscenza delle leggi della natura.
Ci siamo smarriti in certezze di cemento, di rumori assordanti, di animali privati della loro libertà.
Ecco perché dobbiamo il più possibile frequentare i boschi, per riappropriarci delle nostre radici, del nostro rapporto con la natura, del nostro istinto. Pian piano diventeremo sempre più dipendenti dalla vita nel bosco: un segno importantissimo della nostra disintossicazione dal superfluo. C’è chi ad un certo punto della disintossicazione non riesce più a vivere nelle città e fugge nei boschi ma non dobbiamo arrivare a tanto per poter ritrovare noi stessi.
Vivere in paese, in una città o in campagna non è una cosa negativa ma tende ad estraniarci dal resto del mondo naturale. I nostri habitat sono ormai delle costruzioni fatte ad hoc per riproporre sporadicamente e solo in alcuni spazi (nemmeno tanti a volte!) luoghi naturali artificiali che nulla hanno a che vedere con la natura vera e propria: i parchi giochi per bambini, i campi arati, ordinati e delimitati, alberi piantati qua e là posizionati dall’uomo.
Tutto questo non è male, è un modo artificiale di vivere la natura (meglio di niente!) ma frequentare il bosco ci permette di entrare in contatto con la parte più primitiva di noi, con un mondo puro, non contaminato dall’uomo dove regna l’ordine naturale, dove gli alberi sono nati e cresciuti secondo un preciso volere divino, dove non esiste profitto, un secondo fine o una delimitazione dello spazio. Tutto è natura e l’uomo non può far altro che ammirarla, viverla, annusarla, ascoltarla e portarla dentro di se’.
Una passeggiata in un bosco porta innumerevoli benefici a livello fisico e mentale. 
Portateci i vostri bambini, portateci per un pic-nic i vostri anziani, andateci appena potete (da soli è un’esperienza iniziatica memorabile): il richiamo del bosco è all’inizio flebile e pacato ma diventa sempre più urgente e pressante.
“Chi decide di camminare nel bosco è in cerca di una libertà diversa, interiore, che lo renda padrone della sua vita, capace di agire come gli alberi e gli uccelli che vivono al di sopra di tutto.”(Romano Battaglia)

Quando avreste altrimenti la possibilità di ascoltare il silenzio? Quando l’occasione di udire lo scorrere di un ruscello? E di ammirare la danza dei maestosi alberi scossi dal vento? E quando la possibilità di vedere piccoli e grandi animali nel loro habitat naturale? Solo il bosco offre queste ed altre occasioni imperdibili!
Ecco perché stanno per fortuna nascendo anche in Italia tante scuole nel bosco, quale maestro più prezioso del bosco stesso per i nostri bambini?
“Troverai più nei boschi che nei libri. 
Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà.”  
(San Bernardo di Chiaravalle)

venerdì 7 febbraio 2020

IL PATTO EDUCATIVO GLOBALE. PUBBLICATO L'INSTRUMENTUM LABORIS ... mettiamoci in cammino ....

E’ stato pubblicato l’Instrumentum Laboris in preparazione all’incontro mondiale sul PATTO EDUCATIVO GLOBALE che avrà luogo a Roma il prossimo 14 maggio 2020.
Istituzioni, associazioni, comunità sono invitate a preparare il cammino di avvicinamento all’evento voluto dal Papa.
L’Instrumentum Laboris serve a stimolare il dibattito e la riflessione.
In meno di venti pagine presenta, con chiarezza e accuratezza, i vari aspetti del “sentiero”: il progetto, il contesto, la visione, la missione, e alcuni nuclei tematici per ulteriori riflessioni.
Oltre ad una lettura individuale e ad un’adeguata riflessione comunitaria nelle varie istituzioni, è opportuno organizzare incontri, iniziative varie e/o gruppi di lavoro che facciano interagire le varie realtà (scuole, famiglie, associazioni, istituzioni civili, parrocchie ……) per riflettere sullo stato dell’educazione nel territorio ove si opera e condividere una comune progettualità che, responsabilizzando tutti, favorisca una forte presa di coscienza e generi alleanze educative.
E’ auspicabile anche preparare dei brevi documenti su aspetti ritenuti rilevanti, da condividere anche a livello associativo.


Un'alleanza per ricostruire il patto educativo globale

«TUTTI, MA SOPRATTUTTO I BAMBINI E I GIOVANI, HANNO BISOGNO DI UN CONTESTO ADEGUATO,

DI UN HABITAT REALMENTE UMANO, IN CUI SI VERIFICHINO LE CONDIZIONI PER IL LORO SVILUPPO
PERSONALE ARMONIOSO E PER IL LORO INSERIMENTO NELL'HABITAT PIÙ GRANDE DELLA SOCIETÀ.
QUANTO RISULTA ALLORA IMPORTANTE L'IMPEGNO PER CREARE UNA "RETE" ESTESA E FORTE DI LEGAMI
REALMENTE UMANI, CHE SOSTENGA I BAMBINI, CHE LI APRA IN MODO SERENO E FIDUCIOSO ALLA REALTÀ,
CHE SIA UN AUTENTICO LUOGO D'INCONTRO, IN CUI IL VERO, IL BUONO E IL BELLO TROVINO UNA GIUSTA ARMONIA». 
Papa Francesco




Visita il sito: GLOBAL COMPACT on EDUCATION

giovedì 6 febbraio 2020

STUPORE, MERAVIGLIA, CONTEMPLAZIONE, EDUCAZIONE

“Sospetto che il bambino colga il suo primo fiore con una percezione della sua bellezza e del suo significato che il futuro botanico non conserverà mai più”.  (Henry D. Thoreau)

Così annotava nel suo diario, il 5 febbraio 1852, lo scrittore americano Henry David Thoreau. Devo confessare di essere sempre conquistato dal modo di giocare di un bambino: prima che sia pervertito dalla playstation e dai giochi elettronici, egli si accosta a un oggetto con una sorprendente girandola di gesti, di movimenti, di sguardi. Egli compie veramente l'atto primordiale dell'affacciarsi sul mondo con meraviglia per scoprirne le meraviglie («Il mondo perirà per mancanza di meraviglia, non di meraviglie» osservava acutamente lo scrittore inglese Chesterton). È ciò che noi, frettolosi consumatori di tecnologia, non proviamo più. Siamo forse capaci di «vedere un mondo in un granello di sabbia, e un cielo in un fiore selvaggio, l'infinito in un palmo di mano e l'eternità in un'ora?», come cantava il poeta inglese William Blake?
Il botanico non ha più nulla dello stupore del bambino davanti al fiore, alla sua corolla, ai suoi colori. Egli classifica, cataloga, noto-mizza, disseziona, verifica, esamina, ma non riesce più a godere il fascino della bellezza. Il poeta irlandese contemporaneo - sono i veri poeti i grandi maestri della contemplazione - Seamus Heaney, Nobel 1995, ha intitolato una sua raccolta Seeing Things. Sì, abbiamo bisogno di ritornare a «vedere le cose», anzi - come sottintende l'espressione inglese - ad «avere la visione» profonda della realtà, dei volti, degli oggetti, dei segni, dei colori, della vita. E per far questo bisogna sapersi fermare, sostare, stare in silenzio, contemplare.

(G. Ravasi, Breviario laico)


ADOLESCENTI E GENITORI, UN RAPPORTO PROBLEMATICO

Se vogliamo prevenire le patologie dei figli curiamo prima i genitori

Stiamo assistendo ad un fallimento del ruolo genitoriale di massa che indirettamente grava sulla salute mentale dei figli. Se mancano i punti di riferimento i figli cresceranno senza una direzione e ci sarà chi compenserà e chi devierà.

di Maura Manca, Psicoterapeuta

Presidente Osservatorio Nazionale Adolescenza

I disturbi psicopatologici di bambini e adolescenti si stanno aggravando in termini di intensità e di frequenza e non possiamo stare inermi a guardare questa lenta ed inesorabile distruzione di massa. Se vogliamo fare prevenzione dobbiamo accettare questa condizione e cambiare ciò che non funziona. Se prima di fare i cambiamenti non aggiustiamo ciò che non funziona, prima o poi i cerotti si staccano.
La prima infanzia è una fase estremamente delicata in cui si pongono le basi solide su cui si costruirà un’identità stabile, una personalità forte, un’adattabilità del bambino, poi adolescente e infine adulto. E’ un periodo di plasticità neuronale e muscolare in cui il bambino è fortemente condizionabile in termini positivi e negativi, anche e soprattutto dall’apprendimento indiretto, ossia dall’esempio delle figure che lo accudiscono e dalle esperienze di vita che caratterizzeranno la sua vita.
I bambini hanno bisogno del legame, del confronto con il genitore, delle relazioni sociali, dell’attività fisica, di esprimersi da un punto di vista psicologico e fisico sentendosi contenuti da un adulto in grado di fargli da guida, di dargli la mano quando serve e di dirgli “vai ce la puoi fare da solo” quando necessario.
Hanno bisogno di chi non fa da paracadute solo per un egoismo personale, perché si fa prima, perché è meno faticoso, perché non si ha voglia di discutere con il figlio senza capire che se lo si cresce con la consapevolezza che avrà sempre e comunque un paracadute non spiegherà mai le sue ali. Deve crescere con la consapevolezza di un legame stabile, di essere riconosciuto e accettato, di avere un porto sicuro che gli permetterà di partire, di osare, di sperimentarsi perché sa che avrà dei pilastri su cui contare.
Ciò che invece tristemente vedo è che non si prende più in braccio un figlio per calmarlo, non ci si siede più con lui per farlo ragionare e capire cosa sta accadendo e di cosa ha bisogno, si dà uno smartphone, un tablet, una sorta di ciuccio digitale che serve da calmante e da ansiolitico. E’ più facile, è più rapido, i bambini vengono anestetizzati davanti agli schermi e il genitore può fare i benemeriti affari suoi in santa pace.
Posso comprendere i casi straordinari di necessità, ma ciò che distrugge un figlio è la continuità, la sistematicità, non l’occasionalità. Oggi siamo arrivati anche a non far camminare più i figli, a non insegnargli neanche dove mettere i piedi. Sono dotati di scarpe con le rotelle, di hoverboard (gli skate elettrici) per cui si vedono bambini sfrecciare da soli e genitori che non si rendono conto dell’importanza di prendere la mano di un figlio e di camminare al suo fianco.
Il problema non è solo psichico, emotivo e di acquisizione di competenze psichiche, è anche fisico, mi trovo sempre più bambini che non sanno correre, saltare, andare in bicicletta, fare una capriola, che sono completamente scoordinati e non hanno il senso dell’equilibrio. I bambini hanno bisogno di sporcarsi le mani e di sbucciarsi le ginocchia, di confrontarsi con gli altri coetanei, non solo con la tecnologia e con gli adulti, non devono solo competere a chi è più bravo, più bello, a chi fa più cose, a chi è più talentuoso, a chi si mette meglio in posa, a chi fa i video e i selfie più belli e prende già tanti like sui social. Hanno bisogno di litigare e di fare pace, di capire i propri limiti, il senso dell’amicizia che non è essere amici suoi social o mandarsi i cuoricini su WhatsApp, le distanze, l’empatia e il rispetto.
Devono crescere sviluppando le capacità di problem solving e le capacità intellettive attraverso la sperimentazione e le prove ed errori. Se si vuole insegnare ad un figlio ad essere responsabile bisogna prima essere responsabili e comportarsi da genitore responsabile.
Inoltre ci si deve ricordare che “in motu vita est”, la vita è movimento. La staticità spegne, blocca e porta ad una morte psichica. Affrontare la vita di petto e in maniera dinamica è il segreto per non ammalarsi e per non farsi schiacciare dagli eventi, anche se troppo spesso questi bambini non sanno neanche cosa sia la motivazione, la grinta, il credere in se stessi ed in qualcosa o qualcuno e il senso della fatica. 
Rischiano di aver perso una partita in partenza perché nessuno ha “perso tempo” ad insegnargli a giocare la loro partita.