Le patologie del corpo e
quelle dell’anima
di Giuseppe Savagnone *
L’assurgere del coronavirus a protagonista quasi esclusivo della vita del nostro Paese non è solo un fenomeno che riguarda la sfera della salute fisica, ma sta mettendo in luce patologie che si annidano a un livello più profondo, quello dell’anima degli italiani, e che dovrebbero preoccuparci non meno dell’allarme sanitario.
Il virus come strumento di polemica partitica…
Una prima patologia è il clima di esasperata conflittualità politica che ha reso impossibile, perfino in questo momento di emergenza nazionale, una risposta solidale alla sfida del virus. Una parte dell’opposizione – quella che fa capo alla Lega – sembra concentrare in questi giorni la propria attenzione, più che sull’epidemia, sulle vere o presunte responsabilità del governo, trasformando lo stato di calamità nazionale in uno strumento per delegittimare il premier e giungere, come ha sempre sperato, a nuove elezioni.
Per averne un saggio, basta leggere i titoli di prima pagina di alcuni quotidiani, portavoce abituali di questa destra politica, dove, a differenza di quelli delle altre testate, volti a informare sulla gravità della situazione e sulle misure prese per fronteggiarla, si pensa ad attaccare l’esecutivo.
… invece che come sfida che crea solidarietà
Ora, sono personalmente convinto (come molti altri) che, nella gestione dell’emergenza, si siano fatti alcuni errori – per esempio quello di bloccare i voli diretti con la Cina, rendendo così impossibile monitorare i viaggiatori provenienti da là e che sono giunti egualmente in Italia attraverso altri scali. Ma forse in questo momento sarebbe stato il caso di accantonare i propri rancori di parte e puntare, per una volta, sulla solidarietà nazionale. Tanto più che un indebolimento o addirittura le dimissioni del governo, in questa delicatissima congiuntura, avrebbero come unico effetto quello di consegnare il Paese al caos.
La soluzione è difendere le frontiere?
Una seconda patologia è l’ostinazione nell’attribuire la causa dei mali italiani alla mancata difesa delle frontiere. Alcuni giornali hanno legato l’accoglienza all’arrivo del contagio in Italia. Cosa che riprende la polemica del leader della Lega, Salvini, che in diversi interventi pubblici di questi giorni ha collegato il problema della diffusione del coronavirus a quello, da sempre centrale nella sua battaglia politica, della difesa delle frontiere dai migranti.
Citiamo alcuni di questi interventi: «Governo ha sottovalutato coronavirus, far sbarcare migranti ora è irresponsabile». «Forse ora qualcuno avrà capito che è necessario chiudere, controllare, blindare, bloccare, proteggere?». «Blindiamo e sigilliamo i confini».
Ma quali frontiere?
In realtà, proprio la diffusione del coronavirus sta evidenziando in modo irrefutabile l’impossibilità, nel mondo globalizzato, di “blindare e sigillare i confini”. Uno slogan fallace anche quando Salvini faceva il braccio di ferro con Carola Rakete, mentre centinaia di migranti, fuori dal raggio dei riflettori, sbarcavano sulle nostre spiagge dai barconi.
Adesso l’idea di chiudere le frontiere è resa ancora più assurda per il fatto che non si sa più quali siano queste frontiere. Quelle con l’Africa, ancora tenacemente evocate dal leader della Lega, non c’entrano nulla con l’epidemia in corso, che sicuramente non è venuta da là. E non ne abbiamo in comune con la Cina. L’unico blocco possibile, quello dei voli diretti, è stato probabilmente, come si diceva un errore, perché ha reso incontrollabile il flusso di coloro che venivano da quel Paese. E certo Salvini non pretende che «blindiamo» i nostri confini chiudendoci al mondo intero, perché una tale misura sarebbe, per l’Italia come per chiunque altro, un suicidio economico (si pensi al turismo, agli scambi commerciali…) .
Il virus è tra noi
Non c’è dunque nessuna frontiera da chiudere. Tanto più che il virus che ci aggredisce non ha nazionalità e non ha bisogno di chiedere nessun permesso di soggiorno, perché, quale che sia stata la sua originaria provenienza, sono degli italiani a esserne portatori, e non lo hanno preso in Cina, ma al bar sotto casa loro. La netta contrapposizione fra “noi di dentro” e “gli altri di fuori”, che è stata il leit motiv della campagna sull’opinione pubblica italiana in questi ultimi due anni, naufraga miseramente in una situazione in cui la minaccia può venire anche dal nostro vicino di casa.
Il virus come attentato alla sicurezza
Una terza patologia che il coronavirus sta rivelando è la fragilità di una popolazione italiana invecchiata, che da troppo tempo ha assunto come valore fondamentale la sicurezza e che teme sopra ogni altra cosa il rischio (quello della morte, ma anche quello della vita: vedi calo drammatico delle nascite). Da qui la diffidenza verso chi è “diverso”. Da qui il panico che si è impadronito del Paese davanti a questo virus “straniero”, sconosciuto, subito demonizzato come una nuova peste.
Il disaccordo tra gli scienziati
Non ho nulla contro il virologo Burioni, ma al posto suo avrei evitato, almeno per ovvi motivi psicologici, di paragonare la mortalità potenziale del Covid-19 a quella dell’influenza spagnola, che tra il 1918 e il 1920 fece milioni di vittime in tutto il mondo.
Non sono in grado di dare una valutazione sulla fondatezza di questa sua affermazione. Ma prendo atto che scienziati altrettanto autorevoli vedono la situazione in modo molto diverso. È il caso di Maria Rita Gismondo, virologa responsabile del laboratorio dell’ospedale Sacco di Milano: «A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così. Guardate i numeri (…). Non è pandemia! Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per coronavirus 1!».
Anche un’altra illustre virologa italiana, Ilaria Capua, che negli Stati Uniti dirige il One Health Center of Excellence della University of Florida, intervistata da Lucia Annunziata, ha sostenuto che quella in atto è «una sindrome simil-influenzale» che potrebbe durare «fino a primavera inoltrata o prima dell’estate». E ha espresso la sua convinzione «che il virus farà il giro del mondo in tempi abbastanza rapidi, perché siamo tanti e il virus troverà tanti corpi, come batterie. Ma non vuol dire che ci saranno forme gravi, anzi molto probabilmente sarà sempre più debole».
Un giudizio che francamente non si presta a paralleli con la micidiale “spagnola”. E che di sicuro non autorizzerebbe le scene di panico collettivo a cui stiamo assistendo in questi giorni. Chi ha ragione? Le autorità fanno bene a prendere le misure più severe, tenendo conto delle peggiori eventualità, ma il loro invito alla calma andrebbe preso più sul serio.
Il virus ci costringe a vedere la nostra finitezza
Il punto è – e questa è forse la patologia più insidiosa, tra quelle messe in evidenza dal coronavirus – che l’individuo della società industrializzata e consumistica, inebriato e stordito dal suo frenetico attivismo, stenta ad accettare i limiti che derivano dalla sua strutturale finitezza. Anche se ci siamo ormai da tempo lasciati alle spalle le filosofie ottocentesche che esaltavano il Soggetto, mettendolo al posto di Dio, la maggior parte vive tenendo il più possibile lontano dal proprio sguardo l’ineluttabile realtà della sofferenza, della malattia e della morte. Come ha scritto Pascal, «gli uomini, non avendo potuto guarire la morte (…), hanno deciso di non pensarci per rendersi felici». E d’altronde, ci siamo costruiti un tipo di vita in cui non c’è il tempo di pensare ad altro che alle scadenze immediate.
Questa anestesia collettiva ora viene messa in crisi. Per quanto possa essere ridotto, di fatto, l’effetto letale del coronavirus, nell’immaginario collettivo un’epidemia richiama sempre, inevitabilmente, la precarietà della vita e la possibilità angosciosa della morte. È questa angoscia che si annida sordamente al fondo del panico diffuso.
Una finestra sulla vita
Eppure, proprio perché ci costringe a fermarci e a riflettere, l’epidemia in corso, con i suoi tantissimi aspetti negativi, può anche essere l’occasione di una guarigione dalla superficialità a cui la fretta spesso ci costringe. E questa presa di coscienza non è necessariamente motivo di disperazione. La finitezza e la vulnerabilità non sono di per sé una maledizione. Se accettate, esse possono costituire, come ha detto qualcuno, «una finestra sulla vita», un modo per viverla più intensamente.
Unirci a quelli che fanno la loro parte
Forse dobbiamo a un virus l’occasione di guardarci allo specchio e di prendere coscienza dei nostri demoni. Senza dimenticare che questo specchio ci rimanda anche il volto di tanti che si stanno sforzando, in questi giorni, di fare, con serietà e con coraggio, il possibile e qualche volta l’impossibile per contribuire al bene comune. Ma il modo migliore per onorarli non è di tessere il loro elogio, bensì di imitarli come possiamo, facendo umilmente ciascuno la propria parte.
*Direttore Ufficio Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo.
Scrittore ed Editorialista.