lunedì 31 dicembre 2018

AL TERMINE DI UN ANNO .... GRAZIE!

Signore,
alla fine di questo anno voglio ringraziarti
per tutto quello che ho ricevuto da te,
grazie per la vita e l’amore,
per i fiori, l’aria e il sole,
per l’allegria e il dolore,
per quello che è stato possibile
e per quello che non ha potuto esserlo.
Ti regalo quanto ho fatto quest’anno:
il lavoro che ho potuto compiere,
le cose che sono passate per le mie mani
e quello che con queste ho potuto costruire.
Ti offro le persone che ho sempre amato,
le nuove amicizie, quelle a me più vicine,
quelle che sono più lontane,
quelle che se ne sono andate,
quelle che mi hanno chiesto una mano
e quelle che ho potuto aiutare,
quelle con cui ho condiviso la vita,
il lavoro, il dolore e l’allegria.
Oggi, Signore, voglio anche chiedere perdono
per il tempo sprecato, per i soldi spesi male,
per le parole inutili e per l’amore disprezzato;
perdono per le opere vuote,
per il lavoro mal fatto,
per il vivere senza entusiasmo
e per la preghiera sempre rimandata,
per tutte le mie dimenticanze e i miei silenzi.
Semplicemente … ti chiedo perdono.
Signore Dio, Signore del tempo e dell’eternità,
tuo è l’ oggi e il domani, il passato e il futuro, 
e, all'inizio di un nuovo anno,
io fermo la mia vita davanti al calendario 
ancora da inaugurare
e ti offro quei giorni che solo tu sai se arriverò a vivere.
Aiutami a viverli degnamente e pienamente.

Anonimo (giovane contadino sudamericano)
.

ARTIGIANI DI PACE - Messaggio per la giornata mondiale della pace - 1 gennaio 2019


MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO
 PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
".....  Ognuno può apportare la propria pietra alla costruzione della casa comune. 
La vita politica autentica, che si fonda sul diritto e su un dialogo leale tra i soggetti, si rinnova con la convinzione che ogni donna, ogni uomo e ogni generazione racchiudono in sé una promessa che può sprigionare nuove energie relazionali, intellettuali, culturali e spirituali. 
Una tale fiducia non è mai facile da vivere perché le relazioni umane sono complesse. 
In particolare, viviamo in questi tempi in un clima di sfiducia che si radica nella paura dell’altro o dell’estraneo, nell'ansia di perdere i propri vantaggi, e si manifesta purtroppo anche a livello politico, attraverso atteggiamenti di chiusura o nazionalismi che mettono in discussione quella fraternità di cui il nostro mondo globalizzato ha tanto bisogno. 
Oggi più che mai, le nostre società necessitano di “artigiani della pace” che possano essere messaggeri e testimoni autentici di Dio Padre che vuole il bene e la felicità della famiglia umana..... "

sabato 29 dicembre 2018

ANNO NUOVO, VITA NUOVA

Il buon

 proposito? 

Amore e coraggio

di Alberto Caprotti*
Non c’è momento più inevitabile di fine dicembre per chiedersi che cosa si possa fare il prossimo anno per sentirsi migliori. O forse anche per sentirsi e basta.
Magari imparare a chiedere scusa, desiderare meno, vivere di più, farsi meno domande, dare meno risposte, osare il giusto... Ci ho pensato a lungo ma, per quanto mi riguarda, la lista dei buoni propositi per il 2019 è più corta della lista dei buoni propositi che non sono riuscito a realizzare negli ultimi dieci anni.
Eppure, siamo affamati, direbbe Steve Jobs. Affamati di cose scintillanti, di storie di successo, di esempi che indichino una direzione di marcia. Un senso, prima ancora che un dissenso.
E allora non è difficile sognare di imparare a ballare un tango, o di vedere da vicino l’aurora boreale. Oppure, fare i fenomeni, puntare più in alto e progettare di riuscire a ballare un tango mentre sorge l’aurora boreale.
Però si possono immaginare grandi cose anche a chilometro zero. Per esempio smettere di lamentarsi, leggere un libro in più, afferrare il tempo, regalare un sorriso a chi non se lo aspetta, evitare di pretendere sempre dagli altri la risoluzione dei propri problemi. Diventare adulti, insomma, profondi ma leggeri. Il problema è che il sacco dei buoni propositi non è come quello di Babbo Natale: si rompe quasi sempre. Come l’illusione di cambiare, primo, gigantesco e universale obiettivo che quasi tutti si pongono. Ma cambiare come? Provarci per il solo gusto di farlo è da isterici. Rinunciare a provarci è da vigliacchi. In amore, sul lavoro, in tutto: cambiare è rompere gli schemi. Fa paura, spiazza gli altri, ma prima ancora destabilizza noi stessi, se la motivazione è sottile. Allora per rispondere alla domanda, per sapere cosa augurarsi dal nuovo anno, il rischio è quello di affidarsi alla retorica. E pensare che dovremmo puntare ad avere una nuova anima, una nuova spina dorsale, nuove orecchie e occhi nuovi. E vivere in rimonta perché c’è sempre un secondo tempo da giocare.
Troppo facile però, scontato, zuccheroso. Servirebbe altro, di più.
Quando chiesero a Wayne Gretzky, il miglior giocatore di hockey su ghiaccio di tutti i tempi, quale fosse il segreto del suo successo, lui rispose: «Pattino sempre verso il punto dove penso che finirà il dischetto, non verso quello in cui si trova in quel momento...». Ecco, il dischetto che si muove sono i nostri desideri. Meglio inseguirli allora, guardare avanti, regalarsi un po’ di ottimismo, imparare dagli innamorati: gli unici che osano ancora coniugare i verbi al futuro. Innamorarsi di qualcuno, di qualcosa, anche solo di un’idea, qualunque essa sia: questo probabilmente può bastare per dare un senso ai prossimi dodici mesi. Perché la vita è più semplice quando la si affronta con la logica di una passione: i cinici non sanno più neanche come si faccia ma molti, per quanto piegati da un anno difficile, concorderanno che la riscossa non può che partire da lì.
Se però devo scegliere una cosa sola, un solo desiderio da estrarre dalla lampada, prendendo in prestito un pensiero che ho letto da qualche parte, al nuovo anno alla fine vorrei chiedere di regalarmi il coraggio.
Il coraggio di fare ogni giorno almeno una cosa di cui ho paura. Perché la paura è ombra, uccide la mente, fa tornare indietro. Mentre il modo migliore per venirne fuori, quasi sempre è buttarsi dentro.
* www.Avvenire.it

BUONA STRADA A TUTTE E TUTTI!
SAPIENZA E SAGGEZZA CI ORIENTINO ED ACCOMPAGNINO VERSO IL FUTURO.
IL SIGNORE BENEDICA E SOSTENGA IL NOSTRO CAMMINO PERSONALE E COMUNITARIO!

venerdì 28 dicembre 2018

SCAUTISMO E BUONA SALUTE

Abbiamo visto gli scout in tantissimi film americani. Non c’è volta in cui non li vediamo occupati in attività svolte all’aria aperta mentre vengono capitanati da persone che li invogliano ad adottare un grande spirito di squadra e ad avere tanta fiducia in loro stessi. Non a caso il fondatore del movimento scout, Robert Baden-Powell, scriveva: “ È qui dunque lo scopo più importante della formazione scout: educare. Non istruire, si badi bene, ma educare; cioè spingere il ragazzo ad apprendere da sé, di sua spontanea volontà, ciò che gli serve per formarsi una propria personalità”.
Secondo uno studio condotto dall’Università di Edimburgo e da quella di Glasgow, pubblicato sul Journal of Epidemiology and Community Health, pare che gli adulti di circa 50 anni che da piccoli sono stati negli scout abbiano minore probabilità di sviluppare malattie mentali o disturbi psicologici.
Nello specifico, questo studio è stato condotto su ben 10.000 persone inglesi nate nel 1958 ed è il classico “studio di coorte“, ovvero un tipo di studio osservativo che consiste nell’analizzare alcuni fattori di rischio su gruppi di individui selezionati sulla base di alcune caratteristiche in comune. Secondo quanto rivelato dai risultati, circa un quarto dei partecipanti era stato negli scout e il rischio minore che potesse riscontrare disturbi dell’umore o ansia rispetto alla restante parte era di circa il 15%.
Ma perché accade questo? Oltre alle attività e alle caratteristiche già citate, lo scoutismo mira allo sviluppo della capacità di recupero contro i casi di stress più comuni; evita, dunque, l’incombere dello stress mentre si stanno affrontando determinate esperienze e che, al contrario, si riscontri un aumento delle possibilità di successo.

Secondo i ricercatori, incoraggiare questo tipo di attività a basso costo (disponibili a livello mondiale nelle apposite strutture già esistenti) può essere una risposta efficace sia dal punto di vista politico che economico poiché si contribuisce a evitare che ci si ammali una volta raggiunta l’età avanzata.


lunedì 24 dicembre 2018

NATALE, LA GIOIA DI ESSERE SANTI!

Papa Francesco: " .... Il Natale è per eccellenza una festa gioiosa, ma spesso ci accorgiamo che la gente, e forse noi stessi, siamo presi da tante cose e alla fine la gioia non c’è, o, se c’è, è molto superficiale. Perché?

         Mi è venuta in mente quella espressione dello scrittore francese Léon Bloy: «Non c’è che una tristezza, […] quella di non essere santi» (La donna povera, Reggio Emilia 1978, p. 375; cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 34).               Dunque, il contrario della tristezza, cioè la gioia, è legata all’essere santi. Anche la gioia del Natale. Essere buoni, almeno avere il desiderio di essere buoni.
        Guardiamo il presepe. Chi è felice, nel presepe? Questo mi piacerebbe chiederlo a voi bambini, che amate osservare le statuine… e magari anche muoverle un po’, spostarle, facendo arrabbiare il papà, che le ha sistemate con tanta cura!
      Allora, chi è felice nel presepe? La Madonna e San Giuseppe sono pieni di gioia: guardano il Bambino Gesù e sono felici perché, dopo mille preoccupazioni, hanno accolto questo Regalo di Dio, con tanta fede e tanto amore. Sono “straripanti” di santità e quindi di gioia. E voi mi direte: per forza! Sono la Madonna e San Giuseppe! Sì, ma non pensiamo che per loro sia stato facile: santi non si nasce, si diventa, e questo vale anche per loro.
     Poi, pieni di gioia sono i pastori. Anche i pastori sono santi, certo, perché hanno risposto all’annuncio degli angeli, sono accorsi subito alla grotta e hanno riconosciuto il segno del Bambino nella mangiatoia. Non era scontato. In particolare, nei presepi c’è spesso un pastorello, giovane, che guarda verso la grotta con aria trasognata, incantata: quel pastore esprime la gioia stupita di chi accoglie il mistero di Gesù con animo di fanciullo. Questo è un tratto della santità: conservare la capacità di stupirsi, di meravigliarsi davanti ai doni di Dio, alle sue “sorprese”, e il dono più grande, la sorpresa sempre nuova è Gesù. La grande sorpresa è Dio!
         Poi, in alcuni presepi, quelli più grandi, con tanti personaggi, ci sono i mestieri: il ciabattino, l’acquaiolo, il fabbro, il fornaio…, e chi più ne ha più ne metta. E tutti sono felici. Perché? Perché sono come “contagiati” dalla gioia dell’avvenimento a cui partecipano, cioè la nascita di Gesù. Così anche il loro lavoro è santificato dalla presenza di Gesù, dalla sua venuta in mezzo a noi.
        E questo ci fa pensare anche al nostro lavoro. Naturalmente lavorare ha sempre una parte di fatica, è normale. Ma io nella mia terra conoscevo qualcuno che non faticava mai: faceva finta di lavorare, ma non lavorava. Non faceva fatica, si capisce! Ma se ciascuno riflette un po’ della santità di Gesù, basta poco, un piccolo raggio – un sorriso, un’attenzione, una cortesia, un chiedere scusa – allora tutto l’ambiente del lavoro diventa più “respirabile”, non è vero? Si dirada quel clima pesante che a volte noi uomini e donne creiamo con le nostre prepotenze, le chiusure, i pregiudizi, e si lavora anche meglio, con più frutto.
      C’è una cosa che ci rende tristi nel lavoro e fa ammalare l’ambiente del lavoro: è il chiacchiericcio. Per favore, non parlare male degli altri, non sparlare. “Sì, ma quello mi è antipatico, e quello…”. Guarda, prega per lui, ma non sparlare, per favore, perché questo distrugge: distrugge l’amicizia, la spontaneità. E criticare questo e quello. Guarda, meglio tacere. Se tu hai qualcosa contro di lui, vai e dillo direttamente. Ma non sparlare. “Eh padre, viene da sé, di sparlare…”. Ma c’è una bella medicina per non sparlare, ve la dirò: mordersi la lingua. Quando ti viene la voglia, morditi la lingua e così non sparlerai.
         Anche negli ambienti di lavoro esiste “la santità della porta accanto” (cfr Gaudete et exsultate, 6-9). Anche qui in Vaticano, certo, io posso testimoniarlo. Conosco alcuni di voi che sono un esempio di vita: lavorano per la famiglia, e sempre con quel sorriso, con quella laboriosità sana, bella. È possibile la santità. È possibile. Questo è ormai il mio sesto Natale da Vescovo di Roma, e devo dire che ho conosciuto diversi santi e sante che lavorano qui. Santi e sante che vivono la vita cristiana bene, e se fanno qualche cosa brutta chiedono scusa. Ma vanno avanti, con la famiglia. Si può vivere così. È una grazia, ed è tanto bello. Di solito sono persone che non appaiono, persone semplici, modeste, ma che fanno tanto bene nel lavoro e nei rapporti con gli altri. E sono persone gioiose; non perché ridono sempre, no, ma perché hanno dentro una grande serenità e sanno trasmetterla agli altri. E da dove viene quella serenità? Sempre da Lui, Gesù, il Dio-con-noi. È Lui la fonte della nostra gioia, sia personale, sia in famiglia, sia sul lavoro.
        Allora il mio augurio è questo: essere santi, per essere felici. Ma non santi da immaginetta, no, no. Santi normali. Santi e sante in carne e ossa, col nostro carattere, i nostri difetti, anche i nostri peccati – chiediamo perdono e andiamo avanti –, ma pronti a lasciarci “contagiare” dalla presenza di Gesù in mezzo a noi, pronti ad accorrere a Lui, come i pastori, per vedere questo Avvenimento, questo Segno incredibile che Dio ci ha dato. Cosa dicevano gli angeli? «Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10). Andremo a vederlo? O saremo presi da altre cose?
        Cari fratelli e sorelle, non abbiamo paura della santità. Vi assicuro, è la strada della gioia. Buon Natale a tutti!"


venerdì 30 novembre 2018

RETE DEI CENTRI SCOUT. L’ARTE DI FARSI DONO, OVVERO 1+1=3

NEL DECIMO ANNIVERSARIO DELLA COSTITUZIONE DI UNA RETE INTERASSOCIATIVA DEI CENTRI SCOUT ITALIANI

Dieci anni fa (aprile 2018) si riunì in Roma, nella sede dell’AGESCI, un gruppo di responsabili di centri scout italiani (B-P Park nel Lazio, Brownsea Park in Abruzzo, Massariotta-Marineo in Sicilia, Spensley Park in Liguria) con lo scopo di mettere in rete le basi e i centri scout dell’Italia per una reciproca cooperazione finalizzata alla cura della qualità dei luoghi  utilizzati dalle guide e dagli scout italiani e stranieri. Erano presenti anche rappresentanti dell’AGESCI, del CNGEI e del MASCI.
Il Centro Scout veniva definito non un non luogo, uno spazio vuoto da “consumare”, ma  come “spazio significativo” che lascia una traccia in chi lo frequenta; ove memoria e progettualità interagiscono, ove adulti e giovani, con culture ed esperienze diverse, trovano un ambiente (umano e materiale) idoneo alla maturazione di desideri ed “appetiti” positivi, orientati dai valori tipici dello Scautismo.
I rappresentanti delle varie associazioni presenti apprezzarono l’opportunità che la Rete nascesse come un “tavolo interassociativo”, al di fuori di ogni autoreferente chiusura, perché suo scopo era offrire un buon servizio ai ragazzi. Infatti, i vari luoghi (basi, case di caccia …) vengono di solito utilizzati da guide e scout provenienti da varie associazioni italiane ed estere.
Si condivise l’idea di radicare la Rete in una Carta dei valori, cioè in un patto che ne delineasse i punti cardine dell’appartenenza ad essa. La Carta e lo Statuto furono approvati nella successiva riunione che si tenne a Sant’Antimo nell’ottobre dello stesso anno. Fu eletto come portavoce il compianto e dinamico Elio Caruso, promotore dell’incontro.
La Rete, sin dall’inizio, riteneva (e ritiene ancora) una necessaria opportunità l’interazione con le varie associazioni di riferimento dei centri aderenti, tanto da inserire tra gli organi statutari un Comitato dei garanti costituito da un rappresentante designato da ogni associazione, non un mero comitato di controllo, piuttosto un gruppo di persone che cooperasse attivamente con la Rete garantendo la costante interazione con le varie associazioni.
In  questo primo decennio di vita vari Centri scout, facenti parte di diverse associazioni scout operanti in Italia, si sono associati alla Rete. 
Sin dall’inizio la Rete si volle caratterizzare come soggetto che pensa ed opera, che vuole e sa interrogarsi sulle odierne problematiche educative (in particolare dei ragazzi e degli adolescenti) e sulla qualità pedagogica, organizzativa e metodologica dei Centri Scout, perciò è stato man mano elaborato un quaderno denominato “Stile e ruolo dei centri Scout”, una raccolta di numerosi scritti ad hoc.
Condivisione, reciprocità, solidarietà, stile, qualità progettuale e organizzativa furono i termini maggiormente utilizzati nel corso dei primi due incontri dei “fondatori” della Rete.
La Rete, infatti, non volle né vuole essere un mero servizio che si offre in contraccambio di qualcosa (l’adesione). Nell’attuale società egoistica e consumistica, infatti, sovente si pensa e si chiede “Cui prodest? A che mi servi? Che servizio mi offrite? Che beneficio ‘concreto’ ne ricavo? …”). Anche in politica purtroppo sovente si ragiona così: “Io faccio parte del tuo gruppo e ti voto se tu mi garantisci qualcosa!”. Comunemente la reciprocità è vista e praticata come “do ut des”: una visione mercantile della vita e delle relazioni!
Nella logica scout (e cristiana) la reciprocità interagisce con la gratuità: è il farsi dono all’altro, il camminare insieme come carovana in cui ci si sostiene a vicenda, con solidarietà e sussidiarietà; “Io sono felice se so fare felici gli altri”.
A proposito, Baden-Powell, negli ultimi scritti, precisava che scopo dello Scautismo “è di formare cittadini sani, felici e in grado di aiutare il prossimo; di sradicare il ristretto egoismo, sostituendolo con un più vasto ideale di abnegazione e di servizio per la causa dell’umanità; e in tal modo di sviluppare una reciproca buona volontà e spirito di cooperazione”.[1].
 Nella logica comune uno più uno fa due, nella logica della comunità, parafrasando Papa Francesco, possiamo dire che “uno più uno fa tre”. Ogni ‘altro’ è, infatti,  è una risorsa per ciascuno e per tutti. La sua diversità mi/ci interroga e mi/ci arricchisce, mi/ci fa uscire dal pericolo dell’autoreferenza;  non mi fa paura, non mi colonizza (anche se non appartiene al mio ‘clan’, anche se non è dello stesso “mio sangue”). 
Nella logica della reciprocità l’altro pur essendo  diverso da me (e ciò ne fa una preziosa risorsa) cammina con me, non mi fa perdere l’identità ma la rafforza: m’invita a non fare degenerare la distinzione in distanza. Non c’è la logica della narcisistica o timorosa chiusura, dell’appropriarsi dell’altro, dello sterile sovranismo, ma quella dell’apertura, della valorizzazione dei talenti di ciascuno,  dell’interazione radicata nella fiducia, nella solida speranza, nel farsi reciproco dono.
Perciò la gratuità è elemento fondante della reciprocità. Penso alle “tre grazie” unite dalla danza, in cui dare, ricevere e condividere sono la dinamica espressione del danzare; in cui si manifesta la virtuosa gara del fare del proprio meglio, con e per gli altri.
Come in uno strumento musicale, ciascuna nota valorizza se stessa solo se sa interagire con le altre note in un’armonia comune.
Questa è la logica della Carta dei Valori e della fondazione della Rete dei Centri Scout Italiani, una Rete che vuole dinamicamente interagire intra ed extra, in una visione di ecologia integrale  in cui tutti siamo connessi.
La Rete, pur con i suoi limiti, prosegue il cammino, cercando di far sempre meglio, grazie al generoso e fattivo  impegno dei suoi soci, restando sempre aperta a tutti coloro che vogliono garantire alle guide e agli scout (al di là del colore delle loro camicie o della loro pelle) luoghi significativi, fecondi spazi di crescita come scout e come cittadini del mondo.
E’ una sfida per tutti! “Di più saremo insieme. Più gioia ci sarà!”
 Giovanni Perrone






[1] Nota di addio ai miei fratelli e sorelle capi di scout e di guide, in Taccuino, ed. Ancora, Milano, 1976

venerdì 26 ottobre 2018





NOTIZIARIO DICASTEROLAICI, FAMIGLIA E VITA


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domenica 21 ottobre 2018

PADRE PUGLISI E LA VITTORIA SULLA "MAFIA BUONA"

Gli «esempi» 
che hanno dato frutto
SULLA «MAFIA BUONA» UNA VITTORIA CULTURALE

di Giuseppe Pignatone*

La storia della vita e della morte di padre Puglisi rende un’idea della violenza incombente e senza limiti di quella condizione di offesa continua alla dignità umana in cui si viveva a Palermo, e che a padre Puglisi fece dire: «Chi usa la violenza non è un uomo, si degrada da solo al rango di animale». E di questa minaccia imminente, di questo rischio della vita tanti erano consapevoli: persone comuni e persone più esposte per il lavoro che facevano o il ruolo che ricoprivano. Lo erano Falcone e Borsellino, lo erano Piersanti Mattarella e Pio La Torre, lo era Padre Puglisi, che si preoccupò di non esporre a pericolo i suoi amici, quelli che gli erano stati affidati dal Padre (Gv. 17,8). E di quei rischi erano consapevoli tanti altri che, per un caso o per un disegno della Provvidenza, non sono stati colpiti dalla violenza mafiosa.
Riandando con il pensiero a quegli anni, penso che tanti, tantissimi, hanno cercato di portare avanti, a Palermo e in Sicilia, una 'normalità impossibile'. Proprio perché la situazione era questa io credo che sia giusto ripetere in ogni occasione che noi, cioè lo Stato italiano, abbiamo sconfitto quella mafia, la Cosa nostra corleonese, la mafia delle stragi, la mafia che aveva sfidato lo Stato pretendendo di trattare da una posizione di superiorità. Una sfida che è durata troppo a lungo, costata troppe vittime e troppi sacrifici, ma che è stata vinta senza leggi eccezionali, nel rispetto della Costituzione e dei codici. Il delitto di Brancaccio, insieme alle bombe piazzate proprio dai mafiosi agli ordini dei Graviano a San Giovanni («cuore della Roma cristiana», secondo la definizione del cardinale Ruini) e a San Giorgio al Velabro il 27 luglio 1993, rappresentano una intimidazione a tutta la Chiesa e una risposta alle parole pronunziate da Giovanni Paolo II ad Agrigento poche settimane prima, il 9 maggio. Queste parole colpirono profondamente i mafiosi perché denunziavano direttamente una delle ipocrisie chiave nella falsa rappresentazione che le mafie danno di sé: quella di essere una vera religione, coerente e compatibile con quella cattolica, ancora così importante nelle nostre regioni.
Naturalmente la vittoria processuale, se così si può dire, sulla mafia corleonese è frutto anche di una battaglia culturale che è e che sarà decisiva per la vittoria su tutte le mafie. E su questo punto cruciale l’esempio di padre Puglisi rimane di assoluta attualità. Diceva: «Non dobbiamo tacere, bisogna andare avanti. Ciò che è un diritto non si deve chiedere come fosse un favore». Parole ancora attuali, e non solo a Palermo. Mi tornano in mente le parole di Paolo Borsellino che invitava a parlare comunque, in ogni occasione, della mafia, perché la mafia cerca il silenzio, il nascondimento, la disinformazione, come si vede in ogni parte d’Italia.
Quelle di padre Puglisi non erano solo parole vane, ma parole che generavano effetti inaccettabili per i mafiosi. Naturalmente non era un illuso. E la sua frase più famosa, «se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto», segue l’affermazione piena di realismo con cui mette in guardia i suoi amici: «Le nostre iniziative devono essere un segno. Non è qualcosa che può trasformare Brancaccio. Questa è un’illusione che non possiamo permetterci».
A queste parole di Padre Puglisi io vorrei affiancare quelle di due altri grandi siciliani. Giovanni Falcone: «Si può sempre fare qualcosa» dovrebbe essere scritto sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto. Piersanti Mattarella, in un discorso ai giovani, disse: «Non vi lamentate se il personale politico della Dc siciliana è mediocre e impresentabile, perché la responsabilità più grande e più grave è quella degli onesti e dei capaci che se ne lavano le mani e non si impegnano per cambiare le cose». Lo storico Andrea Riccardi si chiede se alla fine per Mattarella, come per Puglisi, non si possa parlare di vite sprecate per realizzare sogni impossibili. Al di là della risposta della fede – che riguarda la coscienza di ognuno e che si basa sulla parabola, cara a padre Puglisi, del chicco di grano che se non cade e marcisce non dà frutto – anche in una logica laica gli esempi di Mattarella e di padre Puglisi, uniti a quelli di tanti altri, hanno portato frutto.
Non solo per quella che ho definito la sconfitta processuale della mafia corleonese, ma anche sul piano – decisivo – della crescita culturale. Fino a non molto tempo fa 'mafia' non coincideva affatto con 'criminalità'; si poteva essere mafiosi senza sentirsi né essere considerati delinquenti. Oggi non è più così. Nessuno più oserebbe parlare di una 'mafia buona' o definire la mafia 'un normale modo di comportarsi'.
Ecco, io – che ho vissuto quei tempi in cui tutto questo avveniva – credo che si tratti di un cambiamento di fondamentale importanza, determinato certo dalle stragi e dalle migliaia di vittime, ma anche dall’esempio positivo di tanti, a cominciare naturalmente da quello, eroico fino al martirio, di padre Pino Puglisi.

*Magistrato, procuratore della Repubblica di Roma

sabato 13 ottobre 2018

SINODO GIOVANI . CREDERE NONOSTANTE LE STRUTTURE

giacomoLa Chiesa cresce per l’attrazione di una fede coinvolta con la vita vera. Domande sul Sinodo dei giovani in dialogo con Giacomo D’Alessandro, animatore di un centro al servizio dei poveri presente nella chiesa di San Pietro in Banchi a Genova

«Da quattro anni provo a fare vita comunitaria con altri ragazzi nei locali di una chiesa nel centro storico di Genova. Un luogo deputato da 35 anni al dialogo tra culture e religioni, a percorsi di ricerca esistenziale e rete sociale. Di mio sono una sorta di “viandante”: il movimento lento, l’incontro, la narrazione caratterizzano un po’ tutte le mie attività. Quelle di comunicatore, quelle di camminatore, quelle di musicista». Si definisce così Giacomo poco sopra i venticinque anni animatore di questo centro straordinario di condivisione, reciprocità, ricerca di cammino vocazionale per giovani che vogliono impegnarsi seriamente a servizio del Vangelo.
Laboratorio privilegiato e appassionante di proposte maturate tra giovani che vogliono fare della loro qualcosa di bello per loro stessi e per gli altri. «Ho una passione per il Vangelo e la Chiesa che da 10 anni mi portano a documentarmi, scrivere e organizzare eventi di approfondimento critico. Ho provato a smettere, ma niente. C’è troppo di buono da valorizzare, spesso offuscato da troppo di malsano da denunciare e rimuovere. Molte ceneri sopra le braci ardenti, come diceva Martini. E in un mondo così complesso, abbiamo bisogno di tornare alla radicalità limpida delle braci originarie».
A Giacomo domandiamo: un giovane della chiesa di Genova, cosa si aspetta dal Sinodo dedicato ai giovani?
Se permetti la battuta, un giovane della chiesa di Genova non sa nemmeno che ci sarà un Sinodo, nel nostro “feudo” purtroppo la chiesa di papa Francesco ancora non arriva. Personalmente, dal Sinodo mi aspetto un cambio di approccio da parte della gerarchia ecclesiastica (perché ricordiamo che questi consessi non li conduce il Popolo di Dio che è la Chiesa, ma la gerarchia che è una piccola parte uniforme di Chiesa). Mi aspetto quello che si stanno impegnando a fare con tanta buona volontà: mettersi in ascolto delle voci libere di tanti giovani diversi, credenti e non credenti, per ricevere da loro una lettura della realtà globale, locale, e della chiesa stessa. Mi aspetto la capacità di non starsene dei contributi giovanili clericali (rischiano di essere i più), ma che sappiano capire da dove arrivano i contributi più originali e rappresentativi, le intuizioni più qualitativamente sensate per rispondere ai segni dei tempi. Mi aspetto infine che si abbia il coraggio di sbloccare alcune riforme attese da troppi anni, penso al diaconato femminile (che ricchezza libererebbe nella chiesa mondiale!), la fine dei seminari su modello tridentino, percorsi vocazionali in grado di valorizzare davvero i diversi carismi espressi dai giovani nel mondo, non soltanto quei carismi che rientrano negli stretti parametri dell’inquadramento ecclesiastico. Non è vero che sono calate le vocazioni, sono calate “questo” tipo di vocazioni pre-confezionate, che non impattano più sulla vita e sulla realtà delle persone.
Secondo la tua esperienza, la Chiesa nelle sue forme, strutture e liturgie è ancora attraente per un giovane?

So che per alcuni queste saranno parole insopportabili, ma bisogna accettare che molti giovani credono “nonostante” le forme, strutture e liturgie della Chiesa. Da tempo queste cose sono, di fatto, controproducenti a percorsi di fede adulta. Non per niente negli ambienti ecclesiali la qualità delle persone si è drasticamente abbassata, rispetto agli anni post-conciliari. L’ossessione dell’omologazione (scambiata per comunione) unita all’immobilismo pachidermico (che fa restare in maniera crescente “fuori dal tempo”) ha tolto alla chiesa le energie migliori. I giovani più svegli sono i primi ad andare altrove ad esprimere i loro talenti, piuttosto che rimanere invischiati in ambienti stantii, dove per smuovere un centimetro devi lottare contro frotte di anziani formati a linguaggi incomprensibili e a strumenti decisionali anti-democratici. Quello che è ancora attraente per i giovani è l’impegno radicale e civile di tanti credenti che agiscono nella società, a partire dal Vangelo, “in Cristo per l’Uomo”. Molti giovani sono in cerca di senso forte per la loro vita, di mission valide in cui tradurre le loro grandi capacità ed esperienze.
Un giovane che vuole seguire Gesù cosa domanda alla chiesa oggi?
È difficile dirlo, dal momento che mai lo si chiede. A questo può servire il Sinodo: capire quali domande porre ai giovani, nella speranza di ottenere delle risposte utili a migliorare gli ambienti educativi. Nella mia limitata esperienza vedo che molti giovani reagiscono bene in situazioni esperienziali forti: il viaggio, il cammino, la missione, il volontariato, la vita comunitaria… Ci sono giovani che hanno fatto tutti i percorsi parrocchiali disponibili, e da adulti si accorgono di non aver mai fatto un percorso di qualità per comprendere i Vangeli. Altri si accorgono di aver fatto tante parole sui valori, ma di non sapere da che parte cominciare per metterli in pratica. Altri ancora hanno bisogno di strumenti per fare discernimento, ma la formazione per essere accompagnatori equilibrati, magari su modello ignaziano, non è certo di tutti i preti e religiosi. Le nuove generazioni generalmente vogliono partire dal fare. Anche perché hanno ben altre preoccupazioni che “fare salotto” o retorica valoriale. Se la fede che si presenta loro è “credi o non credi in Dio”, allora non interessa più a nessuno, perché non ha nulla a che fare con la vita vera. Devono studiare, trovare lavori, aumentare curriculum, capire chi sono, dove vanno, quali stimoli siano distrazioni, quali desideri siano sopiti, dove va il mondo, come incidere su una realtà complessa, come far fronte a esigenze materiali che paiono insormontabili e angoscianti… Si chiedono se sia ancora possibile appartenere a qualcosa, o se sia doveroso andarsene, sperimentare l’altrove, e come tenere insieme percorsi individualistici pur cercando relazioni forti, un ambiente in cui sentirsi a casa. Le esigenze si sono individualizzate e moltiplicate. Per questo la vecchia parrocchia o il vecchio parroco oberato di liturgie non possono rispondere se non a un pugno di giovani. Servono team pastorali con una rete di proposte di qualità più affidabile, il cui fine non sia “portare i giovani in parrocchia”, ma “fare strada accanto a loro” ovunque siano, offrendo stimoli e spunti di crescita interiore ed esistenziale. E sul livello adulti e famiglie, ricostruire delle comunità domestiche, “fuori dal tempio”, dove si condivida la vita, si trasmetta il Vangelo, si facciano scelte coraggiose insieme per essere lievito nella pasta.

Fonte: Città nuova - da: Silvano Gianti

sabato 6 ottobre 2018

SINODO GIOVANI - DISCORSO DI PAPA FRANCESCO - FREQUENTARE IL FUTURO

Cari fratelli e sorelle, carissimi giovani!
Entrando in quest’aula per parlare dei giovani, si sente già la forza della loro presenza che emana positività ed entusiasmo, capaci di invadere e rallegrare non solo quest’aula, ma tutta la Chiesa e il mondo intero.
Ecco perché non posso cominciare senza dirvi grazie! Grazie a voi presenti, grazie a tante persone che lungo un cammino di preparazione di due anni – qui nella Chiesa di Roma e in tutte le Chiese del mondo – hanno lavorato con dedizione e passione per farci giungere a questo momento. Grazie di cuore al Cardinale Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo, ai Presidenti Delegati, al Cardinale Sérgio da Rocha, Relatore Generale; a Mons. Fabio Fabene, Sotto-Segretario, agli Officiali della Segreteria Generale e agli Assistenti; grazie a tutti voi, Padri sinodali, Uditori, Uditrici, esperti e consultori; ai Delegati fraterni; ai traduttori, ai cantori, ai giornalisti. Grazie di cuore a tutti per la vostra partecipazione attiva e feconda.
Un grazie sentito meritano i due Segretari Speciali, Padre Giacomo Costa, gesuita, e Don Rossano Sala, salesiano, che hanno lavorato generosamente con impegno e abnegazione. Hanno lasciato la pelle, nella preparazione!
Desidero anche ringraziare vivamente i giovani collegati con noi, in questo momento, e tutti i giovani che in tanti modi hanno fatto sentire la loro voce. Li ringrazio per aver voluto scommettere che vale la pena di sentirsi parte della Chiesa o di entrare in dialogo con essa; vale la pena di avere la Chiesa come madre, come maestra, come casa, come famiglia, capace, nonostante le debolezze umane e le difficoltà, di brillare e trasmettere l’intramontabile messaggio di Cristo; vale la pena di aggrapparsi alla barca della Chiesa che, pur attraverso le tempeste impietose del mondo, continua ad offrire a tutti rifugio e ospitalità; vale la pena di metterci in ascolto gli uni degli altri; vale la pena di nuotare controcorrente e di legarsi ai valori alti: la famiglia, la fedeltà, l’amore, la fede, il sacrificio, il servizio, la vita eterna. La nostra responsabilità qui al Sinodo è di non smentirli, anzi, di dimostrare che hanno ragione a scommettere: davvero vale la pena, davvero non è tempo perso!
E ringrazio in particolare voi, cari giovani presenti! Il cammino di preparazione al Sinodo ci ha insegnato che l’universo giovanile è talmente variegato da non poter essere rappresentato totalmente, ma voi ne siete certamente un segno importante. La vostra partecipazione ci riempie di gioia e di speranza.
II Sinodo che stiamo vivendo è un momento di condivisione. Desidero dunque, all’inizio del percorso dell’Assemblea sinodale, invitare tutti a parlare con coraggio e parresia, cioè integrando libertà, verità e carità. Solo il dialogo può farci crescere. Una critica onesta e trasparente è costruttiva e aiuta, mentre non lo fanno le chiacchiere inutili, le dicerie, le illazioni oppure i pregiudizi.
E al coraggio del parlare deve corrispondere l’umiltà dell’ascoltare. Dicevo ai giovani nella Riunione pre-sinodale: «Se parla quello che non mi piace, devo ascoltarlo di più, perché ognuno ha il diritto di essere ascoltato, come ognuno ha il diritto di parlare». Questo ascolto aperto richiede coraggio nel prendere la parola e nel farsi voce di tanti giovani del mondo che non sono presenti. È questo ascolto che apre lo spazio al dialogo. Il Sinodo dev’essere un esercizio di dialogo, anzitutto tra quanti vi partecipano. E il primo frutto di questo dialogo è che ciascuno si apra alla novità, a modificare la propria opinione grazie a quanto ha ascoltato dagli altri. Questo è importante per il Sinodo. Molti di voi hanno già preparato il loro intervento prima di venire – e vi ringrazio per questo lavoro –, ma vi invito a sentirvi liberi di considerare quanto avete preparato come una bozza provvisoria aperta alle eventuali integrazioni e modifiche che il cammino sinodale potrebbe suggerire a ciascuno. Sentiamoci liberi di accogliere e comprendere gli altri e quindi di cambiare le nostre convinzioni e posizioni: è segno di grande maturità umana e spirituale.
Il Sinodo è un esercizio ecclesiale di discernimento. Franchezza nel parlare e apertura nell’ascoltare sono fondamentali affinché il Sinodo sia un processo di discernimento. Il discernimento non è uno slogan pubblicitario, non è una tecnica organizzativa, e neppure una moda di questo pontificato, ma un atteggiamento interiore che si radica in un atto di fede. Il discernimento è il metodo e al tempo stesso l’obiettivo che ci proponiamo: esso si fonda sulla convinzione che Dio è all’opera nella storia del mondo, negli eventi della vita, nelle persone che incontro e che mi parlano. Per questo siamo chiamati a metterci in ascolto di ciò che lo Spirito ci suggerisce, con modalità e in direzioni spesso imprevedibili. Il discernimento ha bisogno di spazi e di tempi. Per questo dispongo che durante i lavori, in assemblea plenaria e nei gruppi, ogni 5 interventi si osservi un momento di silenzio – circa tre minuti – per permettere ad ognuno di prestare attenzione alle risonanze che le cose ascoltate suscitano nel suo cuore, per andare in profondità e cogliere ciò che colpisce di più. Questa attenzione all’interiorità è la chiave per compiere il percorso del riconoscere, interpretare e scegliere.
Siamo segno di una Chiesa in ascolto e in cammino. L’atteggiamento di ascolto non può limitarsi alle parole che ci scambieremo nei lavori sinodali. Il cammino di preparazione a questo momento ha evidenziato una Chiesa “in debito di ascolto” anche nei confronti dei giovani, che spesso dalla Chiesa si sentono non compresi nella loro originalità e quindi non accolti per quello che sono veramente, e talvolta persino respinti. Questo Sinodo ha l’opportunità, il compito e il dovere di essere segno della Chiesa che si mette davvero in ascolto, che si lascia interpellare dalle istanze di coloro che incontra, che non ha sempre una risposta preconfezionata già pronta. Una Chiesa che non ascolta si mostra chiusa alla novità, chiusa alle sorprese di Dio, e non potrà risultare credibile, in particolare per i giovani, che inevitabilmente si allontaneranno anziché avvicinarsi.
Usciamo da pregiudizi e stereotipi. Un primo passo nella direzione dell’ascolto è liberare le nostre menti e i nostri cuori da pregiudizi e stereotipi: quando pensiamo di sapere già chi è l’altro e che cosa vuole, allora facciamo davvero fatica ad ascoltarlo sul serio. I rapporti tra le generazioni sono un terreno in cui pregiudizi e stereotipi attecchiscono con una facilità proverbiale, tanto che spesso nemmeno ce ne rendiamo conto. I giovani sono tentati di considerare gli adulti sorpassati; gli adulti sono tentati di ritenere i giovani inesperti, di sapere come sono e soprattutto come dovrebbero essere e comportarsi. Tutto questo può costituire un forte ostacolo al dialogo e all’incontro tra le generazioni. La maggior parte dei presenti non appartiene alla generazione dei giovani, per cui è chiaro che dobbiamo fare attenzione soprattutto al rischio di parlare dei giovani a partire da categorie e schemi mentali ormai superati. Se sapremo evitare questo pericolo, allora contribuiremo a rendere possibile un’alleanza tra generazioni. Gli adulti dovrebbero superare la tentazione di sottovalutare le capacità dei giovani e di giudicarli negativamente. Avevo letto una volta che la prima menzione di questo fatto risale al 3000 a.C. ed è stata trovata su un vaso di argilla dell’antica Babilonia, dove c’è scritto che la gioventù è immorale e che i giovani non sono in grado di salvare la cultura del popolo. È una vecchia tradizione di noi vecchi! I giovani invece dovrebbero superare la tentazione di non prestare ascolto agli adulti e di considerare gli anziani “roba antica, passata e noiosa”, dimenticando che è stolto voler ricominciare sempre da zero come se la vita iniziasse solo con ciascuno di loro. In realtà, gli anziani, nonostante la loro fragilità fisica, rimangono sempre la memoria della nostra umanità, le radici della nostra società, il “polso” della nostra civiltà. Disprezzarli, scaricarli, chiuderli in riserve isolate oppure snobbarli è indice di un cedimento alla mentalità del mondo che sta divorando le nostre case dall’interno. Trascurare il tesoro di esperienze che ogni generazione eredita e trasmette all’altra è un atto di autodistruzione.
Occorre quindi, da una parte, superare con decisione la piaga del clericalismo. Infatti, l’ascolto e l’uscita dagli stereotipi sono anche un potente antidoto contro il rischio del clericalismo, a cui un’assemblea come questa è inevitabilmente esposta, al di là delle intenzioni di ciascuno di noi. Esso nasce da una visione elitaria ed escludente della vocazione, che interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire; e ciò conduce a ritenere di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e di imparare nulla, o fa finta di ascoltare. Il clericalismo è una perversione ed è radice di tanti mali nella Chiesa: di essi dobbiamo chiedere umilmente perdono e soprattutto creare le condizioni perché non si ripetano.
Occorre però, d’altra parte, curare il virus dell’autosufficienza e delle affrettate conclusioni di molti giovani. Dice un proverbio egiziano: “Se nella tua casa non c’è l’anziano, compralo, perché ti servirà”. Ripudiare e rigettare tutto ciò che è stato trasmesso nei secoli porta soltanto al pericoloso smarrimento che purtroppo sta minacciando la nostra umanità; porta allo stato di disillusione che ha invaso i cuori di intere generazioni. L’accumularsi delle esperienze umane, lungo la storia, è il tesoro più prezioso e affidabile che le generazioni ereditano l’una dall’altra. Senza scordare mai la rivelazione divina, che illumina e dà senso alla storia e alla nostra esistenza.
Fratelli e sorelle, che il Sinodo risvegli i nostri cuori! Il presente, anche quello della Chiesa, appare carico di fatiche, di problemi, di pesi. Ma la fede ci dice che esso è anche il kairos in cui il Signore ci viene incontro per amarci e chiamarci alla pienezza della vita. Il futuro non è una minaccia da temere, ma è il tempo che il Signore ci promette perché possiamo fare esperienza della comunione con Lui, con i fratelli e con tutta la creazione. Abbiamo bisogno di ritrovare le ragioni della nostra speranza e soprattutto di trasmetterle ai giovani, che di speranza sono assetati; come ben affermava il Concilio Vaticano II: «Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (Cost. past. Gaudium et spes, 31).
L’incontro tra le generazioni può essere estremamente fecondo in ordine a generare speranza. Ce lo insegna il profeta Gioele in quella che – lo ricordavo anche ai giovani della Riunione pre-sinodale – ritengo essere la profezia dei nostri tempi: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1) e profetizzeranno.
Non c’è bisogno di sofisticate argomentazioni teologiche per mostrare il nostro dovere di aiutare il mondo contemporaneo a camminare verso il regno di Dio, senza false speranze e senza vedere soltanto rovine e guai. Infatti, San Giovanni XXIII, parlando delle persone che valutano i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio, affermò: «Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita» (Discorso per la solenne apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962).
Non lasciarsi dunque tentare dalle “profezie di sventura”, non spendere energie per «contabilizzare fallimenti e rinfacciare amarezze», tenere fisso lo sguardo sul bene che «spesso non fa rumore, non è tema dei blog né arriva sulle prime pagine», e non spaventarsi «davanti alle ferite della carne di Cristo, sempre inferte dal peccato e non di rado dai figli della Chiesa» (cfr Discorso ai Vescovi di recente nomina partecipanti al corso promosso dalle Congregazioni per i Vescovi e per le Chiese Orientali, 13 settembre 2018).
Impegniamoci dunque nel cercare di “frequentare il futuro”, e di far uscire da questo Sinodo non solo un documento – che generalmente viene letto da pochi e criticato da molti –, ma soprattutto propositi pastorali concreti, in grado di realizzare il compito del Sinodo stesso, ossia quello di far germogliare sognisuscitare profezie e visionifar fiorire speranzestimolare fiduciafasciare feriteintrecciare relazionirisuscitare un’alba di speranzaimparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo. Grazie.

Fonte: Sala Stampa Vaticana

giovedì 6 settembre 2018

GIOVANI, L'ATTESA DI CRESCERE CON ADULTI CHE ASCOLTANO

 Un’educazione aperta ai sogni dei giovani

di Ernesto Diaco

     «Caro papa Francesco, sono Letizia, ho 23 anni e studio all’università. Vorrei dirle una parola a proposito dei nostri sogni e di come vediamo il futuro». L’aspetto principale che ha caratterizzato il cammino preparatorio del Sinodo dei Vescovi su «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», in Vaticano dal 3 al 28 ottobre, è stata la ricerca di ascolto e di dialogo con gli stessi giovani. Anche il grande incontro fra papa Francesco e le migliaia di giovani italiani, giunti a Roma «da mille strade» nei giorni più caldi di agosto, ha subito preso la forma di un reciproco guardarsi e parlarsi senza barriere e timori reverenziali.
      Dopo Letizia, che ha scelto la facoltà universitaria seguendo le sue passioni e non gli inviti a considerare prioritarie le esigenze del mercato, nel corso del grande incontro al Circo Massimo dell’11 agosto è intervenuto Lucamatteo, anche lui con progetti più grandi di chi dovrebbe aiutarlo a realizzarli. Martina, 24 anni, ha confidato il suo sogno di costruire una famiglia senza aspettare un’indefinita realizzazione sul lavoro. Nelle parole di Dario, 27enne infermiere in un reparto di cure palliative, sono poi emerse le «grandi domande» su Dio, la morte, l’ingiustizia della sofferenza e della povertà. Accanto a ogni interrogativo, e nient’affatto in secondo piano, l’amara esperienza della delusione, accompagnata dalla richiesta esplicita di punti di riferimento «appassionati e solidali» e della testimonianza autentica di una Chiesa «che ci accompagni e ci ascolti».
      Il pensiero dei giovani su questo punto è chiarissimo: più che strategie, strumenti o metodi pastorali, chiedono persone. Adulti credibili disposti a spendere tempo con loro, offrendo ascolto e segni di fiducia. È una domanda rivolta alla famiglia, alla scuola, all’università, alla Chiesa. Rispetto ai loro coetanei di cinquant’anni fa, l’atteggiamento verso gli adulti sembra essersi rovesciato. Nel 2018, la 'rivoluzione' vogliono farla con i loro genitori, insegnanti, preti e datori di lavoro, non contro di loro.
         Lo notava di recente anche Umberto Galimberti, nel libro in cui aggiorna l’analisi di dieci anni fa sul nichilismo, l’ospite inquietante nella vita dei giovani. L’atmosfera che respirano resta pesante, spiega il filosofo, ma crolla il numero dei rassegnati. Non ci stanno a sentirsi dire continuamente che il loro futuro sarà più grigio di quello dei loro padri. Ciò che chiedono, continua, «sono insegnanti motivati e carismatici, perché si impara per fascinazione». E agli adulti dicono: «Non vi odiamo, anzi vi siamo riconoscenti se ci potete aiutare a realizzare quel che vogliamo diventare, perché un sogno ce l’abbiamo anche noi e non vogliamo vederlo spegnersi come si spengono le stelle cadenti».
U na volta riallacciato il dialogo, i temi sono quelli sollevati dai giovani del Circo Massimo: studio e lavoro, amore e famiglia, Dio.
      Dietro a tali questioni, non è difficile leggere un desiderio spesso inascoltato di identità, di relazioni, di partecipazione. «Santo Padre, con quali occhi possiamo rileggere tutto questo?», chiedevano l’11 agosto a chi appare loro come un interlocutore autorevole e affidabile, per ricevere da lui in cambio l’invito a rischiare un’umanità più fraterna e a «correre nella Chiesa», attratti dal volto di Cristo presente nell’Eucaristia e nella carne dei fratelli che soffrono.
È il metodo educativo di papa Francesco che, quando era vescovo, ha ideato una rete di scuole attorno alla triplice educazione della mente, del cuore e delle mani. L’intelletto, gli affetti, l’agire. Nel contesto della formazione ecclesiale dei giovani potremmo tradurlo in una sorta di alternanza tra parola, preghiera e servizio.
       Descritti dalle ricerche sociali in stand by rispetto alla fede religiosa, propensi cioè a rinviare l’argomento, come se non fosse cosa per la loro età, sono molti però i ragazzi che sfuggono alle etichette che si trovano appiccicate addosso, rovesciandole con la loro sete di incontri non superficiali e di orizzonti di vita più coraggiosi di quelli che offrono gli storereali e virtuali. I nostri giovani non sono affatto indisponibili a un cristianesimo di grazia e di libertà, di rischio e perfino disacrificio. Ma è difficile che questo fuoco divampi se non c’è qualcuno, magari una comunità, che glielo faccia conoscere al di là delle semplificazioni, e soprattutto sperimentare. A ben vedere, chi ha più paura oggi non sono i giovani. Anche davanti al Vangelo.
       Sì, è vero, sembra che la parola vocazione continui a incutere grande timore. Colpa però di una cultura e una società che tramano contro le decisioni definitive e incoraggiano relazioni a bassa intensità, dove essere liberi significa poter revocare ogni propria scelta. La folla delle solitudini che popola le nostre città non è colpa di Internet quanto di chi riduce l’amore all’alternativa estrema tra annullarsi completamente per l’altro oppure bramare di controllarlo e possederlo. La concretezza delle domande giovanili ricorda che tutto ciò che apprendiamo lo facciamo nostro grazie alla molla del desiderio e sul terreno dell’esperienza, tentando anche vie inesplorate. In questo senso, l’educazione dei giovani si declina oggi secondo verbi quali allargare, desiderare, orientare, provare, meglio se insieme. Ciò non elimina certo la fatica dello studio e il valore della conoscenza, troppo spesso trattata come sinonimo di informazione. L’esperienza infatti da sola non basta; quello che semmai è da abbandonare è la standardizzazione di percorsi formativi che non valorizzano i talenti di ciascuno.
     Questo vale anche per la dimensione religiosa, di cui un giovane si appropria solo se la vaglia nelle situazioni e nelle relazioni quotidiane. La vita scolastica e universitaria, oltre che le esperienze lavorative, sono perciò momenti di fondamentale importanza per coloro a cui il Sinodo intende rivolgersi. È qui, infatti, che si sviluppano il senso critico e il desiderio, si è chiamati a rispondere degli impegni presi, si impara a riconoscere i propri limiti e a fare tesoro dei fallimenti. E ancora, si stringono amicizie durature, si impara ad accettare se stessi e gli altri, si percepisce la chiamata a costruire una società migliore per tutti. Non di rado, infine, è qui che vengono messi in discussione – e ritrovati in modo nuovo – il valore della spiritualità, le ragioni della fede, il senso della Chiesa. N el maggio scorso, durante il convegno pastorale della diocesi di Roma, a una domanda sulle attenzioni da riservare alla nuova generazione, papa Francesco non ha nascosto il suo punto di vista: «Uno dei problemi a mio giudizio più difficili, oggi, dei giovani – ha detto – è questo: che sono sradicati.                  
         Devono ritrovare le radici, senza andare indietro: devono ritrovarle per andare avanti». Viene da qui l’insistenza con cui il Pontefice invita a far incontrare i giovani e gli anziani, e a non 'scartare' i nonni, tanto da fare del versetto di Gioele 3,1 uno dei testi biblici da lui più citati: «I vostri anziani sogneranno e i vostri figli profetizzeranno».
        «Quando non ci sono radici, qualsiasi vento finisce per trascinarti», aveva ricordato Francesco nello stesso appuntamento dell’anno prima. Per questo è necessario che i giovani conoscano la terra e la fede che li hanno generati e possano a loro volta costruire un tessuto vitale fatto di legami, di appartenenza reciproca, di progetti comuni. «Affinché i nostri giovani abbiano visioni, siano 'sognatori', possano affrontare con audacia e coraggio i tempi futuri, è necessario che ascoltino i sogni profetici dei loro padri», ripete ancora il Papa lanciando la sfida a noi adulti: aiutiamo i nostri ragazzi a ritrovare le radici. Loro ci metteranno le ali.

*Direttore dell’Ufficio Cei per l’educazione, la scuola e l’università

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